Intervista a Richard Sennett
realizzata da Barbara Bertoncin, traduzione di Sarah Baldissera
IL CONDIZIONALE ATTENUATIVO
Per vivere assieme a persone diverse da noi in società complesse non basta la buona volontà, sono richieste delle abilità pratiche, come l’empatia e un approccio non assertivo; la crisi delle scuole pubbliche e il ruolo dei social network; l’innovativa formula del sindacato americano dei servizi. Intervista a Richard Sennett.
realizzata da Barbara Bertoncin, traduzione di Sarah Baldissera
IL CONDIZIONALE ATTENUATIVO
Per vivere assieme a persone diverse da noi in società complesse non basta la buona volontà, sono richieste delle abilità pratiche, come l’empatia e un approccio non assertivo; la crisi delle scuole pubbliche e il ruolo dei social network; l’innovativa formula del sindacato americano dei servizi. Intervista a Richard Sennett.
Richard Sennett, sociologo, già professore di Sociologia
alla London School of Economics e alla New York University, ha pubblicato tra
l’altro, L’uomo artigiano, Feltrinelli 2008 e Insieme. Rituali, piaceri,
politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2012.
Lei da tempo si interroga su quali siano le "doti” necessarie a vivere nella società moderna, dove siamo chiamati a convivere con persone con una cultura diversa dalla nostra, che non capiamo, che a volte non ci piacciono.
Mi verrebbe da dire che le difficoltà di dialogo oggi riguardano anche la non
facile cooperazione tra i Paesi forti e quelli deboli. Questo in Europa è un
problema enorme. Un problema più per i forti come la Germania che per i deboli
come la Grecia o l’Italia, devo dire.
Anche a questo livello, il bisogno di cooperazione c’è, ma le abilità per
metterla in pratica scarseggiano. Purtroppo l’applicazione pratica di questi
concetti nell’attuale situazione europea mi si è palesata solo dopo aver finito
il libro.
La mia ricerca riguarda la capacità di costruire una relazione fra diversi, il
che costituisce di per sé un’abilità. Quello che è importante da capire è che
per vivere assieme a chi è diverso da noi, non basta la buona volontà, ci
vogliono proprio delle capacità specifiche.
Io parlo di scambio dialogico, cioè aperto all’ascolto, di empatia, che è forse
la virtù sociale cardinale, perché implica un interesse sincero per l’altro
così com’è, cioè nella sua alterità (a differenza della simpatia, che pretende
di immedesimarsi nell’altro). Un’altra competenza richiesta è l’uso del
cosiddetto "condizionale attenuativo” e di quelle forme dubitative che
lasciano aperto uno "spazio di ambiguità”.
Sono tutte cose che dobbiamo imparare dall’esperienza, sono proprio abilità
pratiche.
Spesso il termine "cooperazione” viene usato con tono moralistico e si
confonde con l’"avere un buon cuore”. In realtà, per come la vedo io, la
cooperazione è un’attività pratica, che ha a che fare con abilità fisiche e
sociali. Per esempio usare un tono dubitativo e non assertivo, che dunque
stimoli il dialogo e il confronto, è un po’ come usare la minima forza
necessaria nel maneggiare un oggetto fisico. Il dialogo, inteso come la
creazione di una sintonia, richiede forme di curiosità nei confronti dell’altro;
l’empatia significa minimizzare la capacità di resistenza che si incontra
nell’entrare in relazione e può somigliare all’annullamento della resistenza
che oppongono gli oggetti concreti al contatto. Ciò che cerco di evitare è la
moralizzazione della cooperazione, che va invece vista in un contesto pratico.
Lei dice che la cooperazione è stata in qualche modo "corrotta” dalla solidarietà. Cosa intende?
Lei dice che la cooperazione è stata in qualche modo "corrotta” dalla solidarietà. Cosa intende?
È una faccenda terribile per le persone di sinistra. La solidarietà implica una
sorta di unità, la quale richiede disciplina, che a sua volta implica una
gestione gerarchica. È difficile che esista la solidarietà senza una politica
gerarchica. Al contrario, la cooperazione è qualcosa di confuso, che nasce dal
basso e che si fonda su uno scambio diretto, più che su programmi o politiche.
È sempre qualcosa che ha a che fare con l’esperienza.
Io mi sento di appartenere a quella che viene chiamata la sinistra sociale, la
cui espressione politica oggi è incarnata ad esempio nell’"Occupy
movement”, qualcosa che non ha a che fare con l’ideologia, ma con l’azione
diretta fra le persone.
La vostra rivista si chiama "Una città”. Ecco, il problema di andare
d’accordo con gli sconosciuti ha molto a che fare con i contesti urbani. Il
problema non nasce soltanto dal modo in cui ci comportiamo con immigrati o
stranieri, ma anche da come ci comportiamo con persone diverse da noi per
classe sociale. Ciò che sta accadendo nelle città moderne è che l’isolamento
per classe, così come per etnia o religione, sta aumentando. È uno degli
effetti della cosiddetta "gentrificazione”, cioè di quel processo per cui
certi quartieri popolari o misti, dopo un intervento di riqualificazione,
attraggono una popolazione più benestante, che via via sostituisce le famiglie
della classe operaia che non possono più permettersi il prezzo degli affitti o
la compravendita. L’effetto è che l’esperienza di vivere assieme a persone
diverse da te perché più ricche o più povere diventa sempre meno frequente
nelle città moderne.
Nelle grandi città europee le scuole svolgono un ruolo fondamentale nel
mettere insieme persone diverse. Oggi tuttavia la scuola pubblica è in grave
difficoltà e chi può manda i figli nelle scuole private.
In Gran Bretagna questo è un problema enorme perché le scuole private sono
molto costose, si arriva anche a 15.000 euro di retta scolastica, cifre
impegnative per lo stesso ceto medio. D’altra parte la qualità delle scuole
pubbliche è peggiorata così tanto che i genitori sentono di dover fare qualcosa
perché i loro bambini studino in scuole di livello più alto. Questa è una
questione che ha investito anche la mia famiglia: il mio nipotino frequentava
una scuola statale e non imparava niente. Alla fine i suoi genitori sono stati
costretti a optare per una scuola privata, per quanto non tra le più costose.
Può immaginare: in qualche modo è una sconfitta per una famiglia di sinistra.
Ma la questione di base è che se si desidera una società in cui c’è più
interscambio fra le classi, lo Stato deve fare di questo una linea politica esplicita.
In Gran Bretagna abbiamo ancora un immenso apparato militare. Possiamo
scegliere se investire i soldi in quello o nelle scuole statali. Forse in
Italia non dovete affrontare questo problema... Penso che in Italia ci siano
molti punti di forza di cui gli italiani non vogliono prendere coscienza. La
vostra è una società meno competitiva. Nella quotidianità resiste un forte
"collante” fra le persone. La società inglese è stata neoliberale per
troppo tempo: le abitudini alla competizione e all’individualismo, incorporate
nel neoliberalismo, sono state assorbite. Siamo molto più simili agli americani
che agli europei, molto più aggressivi fra di noi. Il vostro problema, in
Italia, sono le università. Gli studenti a cui ho insegnato qui, che arrivano
da scuole pubbliche italiane, hanno una buona istruzione. Ma le università
italiane non sono al livello di quelle britanniche.
Una cosa che mi ha colpito dell’Italia è la formazione di abili lavoratori
manuali, di artigiani. Credo che noi britannici abbiamo molto da imparare da
voi su questo, le vostre scuole tecniche sono eccellenti.
Ma oggi tutti i genitori vogliono che i figli frequentino il liceo...
Quello è un altro problema diffuso un po’ in tutt’Europa. Ne ho parlato ne L’uomo
artigiano. Il prestigio legato allo svolgere un lavoro non manuale ha distorto
la percezione della realtà. Secondo me oggi è molto meglio essere un bravo
artigiano che un laureato disoccupato. Purtroppo c’è una specie di snobismo
riguardo al lavoro manuale. Ma se io penso al mio nipotino, non ho dubbi: molto
probabilmente se decidesse di fare l’elettricista farebbe una vita migliore che
non se seguisse il percorso dei ricercatori universitari.
Un’altra questione è quella della comunità: in Italia c’è la Lega, in
Francia Le Pen... Quando si parla di comunità, la destra sembra essere meglio
attrezzata della sinistra...
Sì e questo è un problema serio. La destra ha colonizzato la discussione sulla
comunità, e l’ha fatto in un modo preciso, cioè affermando che il valore della
comunità è più importante del valore della sfera pubblica. La mia idea è che a
sinistra dovremmo costruire una politica dal basso in modo comunitario,
cercando però di tenere assieme sfera comunitaria e sfera pubblica piuttosto
che separarle, cosa che fa la destra.
Se vogliamo parlare delle nostre città, c’è un problema urbanistico molto
preciso: invece di concentrarci sul centro delle aree urbane dovremmo
concentrarci sulla periferia. Abbiamo focalizzato tutta la nostra attenzione nel
cuore della comunità dimenticandoci della condizione dei margini. Invece, per
costruire la sfera pubblica, oggi bisogna concentrarsi proprio sulle zone di
confine -fra ricchi e poveri, tra musulmani e cristiani, ecc.
Bisogna lavorare molto di più nella zona ambigua, di confine, nei quartieri
periferici. Questo è anche un problema urbanistico: come si pianifica una
periferia? Di nuovo, per rivitalizzare la sfera pubblica delle città c’è
qualcosa di molto pratico che può essere fatto. Bisogna smettere di considerare
la sfera pubblica come un centro morto, un cuore formale della città.
Considerando il funzionamento odierno della società, riguardo la
cooperazione lei ha segnalato che c’è una carenza di tempo. C’è anche una
carenza di luoghi? Ad esempio in Italia, nell’800, c’erano le famose "case
del popolo”, oggi che cosa potrebbe esserci di analogo?
Ci sono molte cose che potremmo fare. Ad esempio, nei centri commerciali
potrebbero nascere attività di tipo diverso. Ora i centri commerciali sono
spazi dedicati soltanto al consumo al dettaglio, ma potrebbero facilmente
diventare spazi più complessi, dove potrebbero aver sede ambulatori, anche
uffici pubblici, perché no?
Vorrei chiarire una cosa sulla cooperazione: quando penso alla cooperazione in
termini urbani, non penso semplicemente a delle persone che parlano fra loro.
Molte persone infatti non definirebbero cooperazione una negoziazione
non-verbale fra persone. Questa interpretazione deriva da una storia della
cooperazione che ha dato tantissima importanza alla trattativa verbale. In
realtà con cooperazione io intendo una condivisione fisica, materiale, degli
spazi. Far sì che le persone si mescolino fisicamente significa, ad esempio,
non aver paura di vedere una donna con lo hijab, il velo islamico. Si tratta di
riconoscere il suo diritto di essere lì, di non evitarla o scappare, molto
banalmente di coesistere nello stesso spazio. Tutto questo è contenuto nel
significato della parola inglese cooperative. Va da sé che questo in un
ambiente urbano ha molto a che fare con il comportamento fisico oltre che con
il linguaggio parlato.
A una lezione di qualche mese fa alla London School of Economics, lei ha
parlato di Seiu, Service Employees International Union, il sindacato del
personale dei servizi, che negli Stati Uniti è in piena espansione grazie a una
formula innovativa. Ce ne può parlare?
Sì, Seiu è un’esperienza interessante e non è l’unica, altri sindacati stanno
sperimentando nuove formule. La loro idea di base è che servono istituzioni
intermedie nella società civile. I sindacati sono nella posizione ideale per
giocare quel ruolo, purché non si limitino a essere agenti di contrattazione
economica. Oggi i soggetti che sono in espansione sono quelli che si rivelano
anche socialmente creativi, che si preoccupano di organizzare asili nido, di
gestire ambulatori o assistenza agli anziani, ma soprattutto che sono in grado
di creare un senso di appartenenza. Non conosco la situazione italiana, ma in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti questa tendenza si sta rafforzando.
Ovviamente c’è una discussione interna al movimento sindacale perché i
sindacalisti si vedono ancora come quelli che combattono contro il capitalismo
per il bene dei lavoratori e questa funzione viene intesa in termini puramente
economici. Ma altri stanno iniziando a sperimentare idee diverse e io sono
ottimista.
Qualche settimana fa, sono stato ad un incontro in Grecia dove abbiamo discusso
di questo modello, e di un suo ruolo nella società civile greca. I soggetti
politici si sono allontanati dalla gente e i lavoratori si trovano in una
condizione disperata.
Dev’esserci qualcosa di cui le persone fanno parte che è più grande di loro.
Alcuni sindacati greci sembrano interessati a ciò, altri restano legati alla
vecchia politica -penso al Pasok- e non vogliono sentirne parlare.
Credo che in Italia ci sia lo stesso problema...
Voi avete anche associazioni legate al lavoro artigianale, potete sperimentare
un tipo diverso di istituzione intermedia. Non credo che questo nuovo soggetto
emergerà dalla tradizionale politica di sinistra. C’è bisogno di qualcosa di
nuovo.
Pensa a una specie di sindacato dei cittadini?
Penso a un’associazione di lavoratori che non sia limitata ad una professione,
e che oltre ad occuparsi dei problemi economici affronti i problemi sociali e
di convivenza.
Quindi non parlo di "cittadini” nel senso politico, ma di cittadini nel
senso di persone che vivono nelle città. Inoltre, penso a un tipo di
associazione che non è necessariamente locale. All’interno del Seiu, le persone
comunicano soltanto via mail perché vivono in città diverse. Ecco, questa
possibilità di sviluppare e ampliare le reti è una pratica da sperimentare.
Lei si è interessato anche al ruolo di internet e dei social network.
Nel libro mi soffermo su "Google Wave”, un’applicazione per agevolare la
cooperazione che però è fallita perché gli sviluppatori non hanno capito il
punto. Hanno pensato alla cooperazione come alla ricerca della soluzione di un
problema, non come a uno scambio libero, paritario e aperto a esiti imprevisti.
È un errore di programmazione emblematico.
Facebook e Twitter sono strumenti molto più complessi ed interessanti. Come
sapete, Facebook fu fondato, in origine, come un servizio per mantenere i
contatti tra studenti. In breve però è diventato, più che uno strumento di
comunicazione, una sorta di vetrina. I proprietari di Facebook hanno cercato di
strumentalizzare questa cosa a fini commerciali.
L’aspetto interessante è che questo social network può essere convertito a fini
davvero comunicativi.
Nessuno nella Primavera araba, quando si è iscritto a Facebook, era interessato
a comprare un paio di blue jeans o una maglietta. Con Twitter è un po’ la
stessa cosa: nato per segnalare articoli interessanti, o mandare brevi
messaggi, dei "tweet” appunto, poteva essere "piegato” per essere
usato come uno strumento di coordinamento politico. Nell’Occupy Movement a New
York, ad esempio, usiamo Twitter in continuazione perché è il sistema più
efficace per mettere in contatto le persone che sono in punti diversi della
città.
Ecco allora che ciò che mi sembra interessante in entrambi i casi è come la
tecnologia possa essere "piegata” per usi che non erano nell’intenzione
dei programmatori. E, ripeto, trovo curioso che nel caso di Google wave, dove
invece lo scopo era la cooperazione, il risultato sia stato fallimentare.
L’aspetto intrigante dei social media mi sembra questo: come usare la
tecnologia in modi che rendano possibile una cooperazione complessa.
Nella Primavera araba o in Siria abbiamo assistito a un uso politico di
Facebook, in cui in vetrina non c’eri più tu, ma gli altri. In questo modo
Facebook ha assunto la funzione di una telecamera e quindi di denuncia. Anche
qui: la tecnologia era stata concepita in modo che la telecamera fosse rivolta
in direzione dell’utente, in una funzione riflessiva, di specchio appunto, ma
poi gli utenti hanno addirittura rovesciato quest’idea mettendo in vetrina
quello che vedevano e rendendolo pubblico. Penso che con lo sviluppo della
social technology, i social media sempre più spesso verranno usati in modi che
i loro inventori non avrebbero mai immaginato.
Lei distingue tra "attitude”, l’atteggiamento, e "behaviour”, il
comportamento effettivo per ricordare che chi vive in comunità omogenee ha un
atteggiamento più curioso e socievole verso i diversi, mentre chi vive in
quartieri misti ha spesso un atteggiamento di diffidenza, ma poi però nel
quotidiano può praticare comportamenti collaborativi. Può parlarne?
È una questione molto complicata. Spesso, persone con un atteggiamento che
viene percepito come razzista quando hanno a che fare con qualcuno di cultura o
religione diversa non lo sono affatto. Infatti ho sempre pensato che i sondaggi
sull’atteggiamento siano molto fuorvianti perché non rivelano il comportamento
reale delle persone.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il razzismo produce una forma di indifferenza
verso gli altri. Alla fine semplicemente non li vedi. Sono gli uomini e donne
"invisibili” di Ralph Ellison. Non è il caso nostro, qui in Europa.
Sono moderatamente ottimista sul destino dell’Europa. Non saremo il centro del
mondo nei prossimi anni, ma non importa. Non c’è niente nella vita che richieda
l’egemonia. La mia speranza è che l’Europa col tempo somigli di più alla
Norvegia: una società civile onesta, con un’abitudine alla cooperazione ormai
radicata. A mio avviso quella norvegese è una società modello. Dopo la Seconda
guerra mondiale, anche la Gran Bretagna ha vissuto un periodo analogo: eravamo
stati colpiti così gravemente che le persone dovevano collaborare per rimettere
in piedi la società e il paese. Purtroppo, l’avvento della società consumistica
neoliberale ha ridimensionato quel tipo di cooperazione quotidiana spontanea.
Questa crisi economica potrebbe essere un’opportunità?
In quanto persona che si interessa di politica economica posso affermare che la
parola "crisi” non è adatta per esprimere ciò che sta accadendo. La crisi
è una cosa temporanea. Finché il capitalismo e la struttura statale attuali
resteranno in vigore, la cosiddetta crisi durerà per decenni. La crescita
rallenterà, ci saranno livelli di disoccupazione molto alti e il sistema
finanziario crollerà periodicamente. Penso che questa condizione sia destinata
a diventare una condizione normale, dovuta al fatto che in Europa ci sono più
lavoratori di quanti ce ne sia bisogno. Dobbiamo imparare a convivere con la
consapevolezza che questo sistema economico non solo non ci porterà a
condizioni migliori, ma al contrario sta degradando la qualità della nostra
vita. Questa non è una crisi da cui ci risolleveremo. Il problema pertanto è
come resistere e come conviverci.
Il fatto è che parliamo di una situazione inedita. Non c’è infatti qualcuno di
preciso contro cui ribellarsi, come si faceva nel diciannovesimo secolo. I
padroni dell’Europa sono nel Medio Oriente, nell’Estremo Oriente, negli Stati
Uniti. Prendersela con la banca e il banchiere locale è inutile. È difficile
districarsi nel neoliberalismo globalizzato: gli attori non sono mai presenti.
Bisogna costruire una contro-società resistente che affronti quest’oppressione,
consapevole che, per lo meno nella nostra generazione, non scomparirà
magicamente con la ripresa della Borsa.
Insomma, invece di essere angosciati, dobbiamo essere più forti. Forse la mia
analisi è sbagliata, forse una rivoluzione in cui tutti i banchieri saranno
decapitati è possibile, ma francamente non la vedo molto probabile.
All’inizio ha citato l’Unione Europea. Ha un ruolo in questo discorso della
cooperazione?
Se stessi ancora scrivendo il libro, dedicherei un intero capitolo ai burocrati
di Bruxelles. La prima considerazione che mi viene da fare è che per loro
regolamentazione è sinonimo di cooperazione.
Non hanno alcuna sensibilità per le relazioni sociali informali. Tutto è
codificato, comunicano fra loro in modo formale.
Penso che questo abbia contribuito a delegittimare il progetto europeo.
Inoltre, molte persone che lavorano nella burocrazia non sono molto qualificate
e quindi hanno l’atteggiamento tipico delle persone mediocri, che è quello di
fare riferimento a norme e regolamentazioni anche nel relazionarsi alle altre
persone.
Questo perché mancano di quelle abilità sociali che permetterebbero loro di
gestire le complessità che emergono in uno scambio informale. Dall’altra parte,
quelli che hanno potere, come la signora Lagarde, sono così distaccati dalla
vita di tutti i giorni che è quasi impossibile per loro avere una percezione
della realtà. Anche i suoi commenti sul fatto che la Grecia debba pagare più
tasse... Beh, se si considera che lei invece, in nome del suo particolare
status fiscale, non versa imposte ad alcuno Stato...
Insomma, la mia esperienza in quest’ambito è problematica. È un peccato, perché
io invece vorrei che questo progetto avesse successo. Ma se lo stesso
comportamento delle persone che gestiscono l’Ue non è cooperativo...
Lei parla anche del "piacere” di stare insieme tra diversi. Può
spiegare?
Il piacere di stare insieme è un piacere molto maturo che non ha niente a che fare con la soddisfazione sessuale, sensuale. Al contrario, ha a che fare con il sentirsi a proprio agio di fronte alla complessità. È un piacere adulto che consiste nel non scappare, nel non allontanarsi quando le cose si fanno difficili e nel sentirsi sicuri di avere le doti necessarie per gestire situazioni complesse. Avrei forse dovuto usare una parola diversa, magari gratificazione, non lo so.
Il piacere di stare insieme è un piacere molto maturo che non ha niente a che fare con la soddisfazione sessuale, sensuale. Al contrario, ha a che fare con il sentirsi a proprio agio di fronte alla complessità. È un piacere adulto che consiste nel non scappare, nel non allontanarsi quando le cose si fanno difficili e nel sentirsi sicuri di avere le doti necessarie per gestire situazioni complesse. Avrei forse dovuto usare una parola diversa, magari gratificazione, non lo so.
Alla fine è il piacere legato al superamento della paura dell’altro. È qualcosa
che dà alle persone un senso di sicurezza e la sensazione di essere adeguate
alle sfide della società in cui vivono. Per me la serenità legata al sentirsi
capaci di gestire la complessità è un piacere intenso. È qualcosa che dà anche
soddisfazione alle persone.
(a cura di Barbara Bertoncin. Traduzione di Sarah Baldiserra)
Da UNA CITTÀ n. 196 / 2012 Agosto-Settembre
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