Negli stereotipi più diffusi, essa non ha soltanto un luogo,
ma una forma: quella della casetta volta ad ospitare una felicità intima e
segreta (un cuore e una capanna), che rappresenta contemporaneamente il più
diffuso, il più modesto («ça me suffit» «questo mi basta», si chiamano a volte
questi rifugi dell’anonimato) e il più ambizioso degli ideali.
Il più ambizioso perché sotteso alla convinzione che la
ricetta della felicità era a portata di mano se solo si avesse avuto la
saggezza di credere in sé, di rinunciare alle ambizioni e di accontentarsi del
poco che è anche l’essenziale: l’amore, l’amicizia, la sobrietà. Ben inteso, si
tratta di un ideale che molti, per quanto a qualcuno possa sembrare limitato,
sono lontani dal raggiungere. Le ali della vita fanno spesso vacillare l’amore
e l’amicizia, la sobrietà e la sedentarietà non preservano dalla noia né dalla
solitudine. Il «manifesto» della felicità è di solito un appello di tipo
pubblicitario di cui la società mediatica si serve per vendere i suoi serials
(«La casa nella prateria») o i suoi prodotti finanziari: quanti anziani allegri
e sgambettanti noi vediamo davanti al loro giardinetto fiorito e ai loro bravi
nipoti celebrare il riscatto dell’assicurazione sulla vita o l’importo del
funerale pagato in anticipo? (...) Si delineano due linee direttrici. Possiamo
analizzare i processi attraverso i quali oggi ci viene offerta una felicità
prefabbricata sotto diverse spoglie: vacanze, viaggi, cure del corpo,
giovinezza eterna, avvenire assicurato (nei due sensi del termine), partners
sessuali o compagni di vita (c’è un mercato anche per questo). Per esplorare
quest’ambito dovremmo prestare attenzione non soltanto alle diverse proposte
pubblicitarie, ma anche ai programmi politici, alla diffusione
dell’informazione e alle convulsioni religiose nel mondo globalizzato. È un
programma importante e interessante, ma che trascura la questione centrale
attorno alla quale esso ruota: che cos’è la felicità? Noi possiamo dunque porci
direttamente l’interrogativo sulla felicità, con pretesa, certamente, ma anche
con semplicità e franchezza.
Chi può decidere della felicità degli altri? È sufficiente
smontare i meccanismi dell’alienazione per rispondere alla questione della
felicità? Se gli uomini trovano soddisfazione nello spettacolo dei fenomeni in
cui la dimensione finanziaria è evidente e essenziale (come il gioco d’azzardo
o lo spettacolo sportivo) non è necessariamente per incoscienza; all'origine
dell’illusione c’è il desiderio (Freud lo suggeriva), il desiderio più forte di
tutto.
Chi giudicherà la legittimità del desiderio? E se ci piace
essere estraniati, potranno sempre rispondere i nuovi adepti della servitù
volontaria. Per approfondire la questione della felicità, comincerei col
tornare su quella che ha a che fare con lo spazio. Da quando ho introdotto la
distinzione tra luogo e non-luogo, un’interpretazione frettolosa ha talvolta
presentato il luogo come la quintessenza della perfezione sociale e il non-luogo
come la negazione dell’identità individuale e collettiva.
Ora, le cose sono meno nette e più complesse. Ricordo la mia
definizione di luogo. Uno spazio nel quale si possono decodificare le relazioni
sociali (che letteralmente vi s’inscrivono), i simboli che uniscono gli
individui e la storia che è loro comune. Nel nonluogo questa lettura non è
possibile. Non ne consegue che il luogo sia per definizione uno spazio di
felicità. Solo degli individui possono giudicare a proposito della felicità, e
la perfezione della relazione sociale rappresenta in maniera molto evidente un
limite per l’iniziativa individuale. Nelle società tribali africane, per
esempio, l’individuo nella sua interezza si rimette al suo entourage ed è
sottomesso alle interpretazioni cui il suo comportamento può essere oggetto.
I sospetti e le accuse di stregoneria trovano la loro
origine in questa intimità vicendevole e in questa sorveglianza reciproca. Noi
ritroviamo questo all'interno dei nostri Paesi e sappiamo che per la maggior
parte dei contadini del secolo passato la migrazione in città era considerata
come un passo verso la libertà. Da un altro lato, l’individualità assoluta è
impensabile. Non c’è identità senza alterità, non c’è individuo senza
relazione. Il senso sociale attiene la relazione. La libertà ha a che fare con
l’individuo. Ma una libertà assoluta e un’assenza di relazione sono tanto
impensabili quanto è intollerabile un insieme di relazioni imposte e la
cancellazione dell’esistenza individuale. Queste sono due forme simmetriche e
opposte di follia. Storicamente, i regimi autoritari hanno imposto le
relazioni, e la lotta per la democrazia si è sempre identificata con la difesa
dell’individuo. Ne deriva che un minimo di senso sociale è necessario per
l’esistenza individuale. Tradizionalmente, l’individualità si afferma al
crocevia di tre parametri antropologici che sono la filiazione, l’alleanza e la
generazione. L’antropologia, nell’ambito della sua dimensione generalista,
valorizza questa dimensione relativa dell’individualità. (...)
Che ne è, oggi, dei luoghi di circolazione, di consumo e di
comunicazione contemporanei? Dal punto di vista della felicità essi sono
ambivalenti. L’istantaneità, l’ubiquità sono dei doni magici che finora restano
il monopolio degli eroi dei racconti per bambini. Noi ci interfacciamo
attraverso la tecnologia. Si può pensare, e lo si dice spesso, che la
solitudine degli individui è minore grazie all'esistenza di questi strumenti
ultrapotenti. Certamente, per molti aspetti, costituiscono degli inganni. La
televisione, per esempio, ci fa credere che noi conosciamo i grandi di questo
mondo e i giornalisti che li presentano perché li riconosciamo. Internet può
persuaderci che siamo in relazione con tutta la terra e che tutto il sapere del
mondo è a nostra disposizione. Ma oltre al fatto che la maggioranza
dell’umanità non ha accesso a questo mezzo di comunicazione e che una parte di
coloro che ne dispongono ne fa soprattutto un uso ludico, poiché lo strumento
non ha niente di pedagogico e insegna solo a quelli che già conoscono, si deve
ammettere che la natura della relazione stabilita attraverso internet è
problematica incerta e indefinita, senza faccia a faccia né tu per tu.
L’essenziale è forse altrove. Le relazioni stabilite attraverso internet sono piuttosto
delle promesse di relazione. Esse somigliano a quei messaggi lanciati come
fossero delle bottiglie in mare nei piccoli annunci dei giornali (in Francia
all'interno di «Liberation ») e che tentano di prolungare un’impressione
fuggitiva, un’emozione istantanea: «Lei indossava un abito verde. Lei è scesa a
Concorde», «Lei discuteva con un’amica e i nostri sguardi si sono incrociati
quando sono sceso a Opéra». Io ho sempre trovato questi annunci poetici,
talvolta perché giocano con il tempo, con degli istanti che rifiutano di
trasformarsi in ricordi e perché cercano di credere all'incontro cercando di
leggere il caso come se fosse un destino.
È l’idea dell’incontro possibile che ha la meglio, allora,
sull'evidenza del sentimento: l’invio del numero di cellulare tenta di donare
eco all'emozione fuggitiva, di resuscitare l’istante che l’ha preceduta, di
scatenare una replica che confermerà la realtà del piccolo sisma intimo
avvertito nel metrò. Una promessa di felicità possibile: è senza dubbio
l’essenziale del movimento romantico che spinge molti individui a mettersi in
cammino, in senso proprio o in senso figurato. La riapertura del tempo che
corrisponde a questa andatura è una prova di esistenza. Nei romanzi
cavallereschi del Medioevo, il cavaliere errante parte all'avventura senza una
meta dichiarata: lo scenario vagamente evocato della foresta deserta nella
quale si arrischia è molto letteralmente un non-luogo, ma anche,
simultaneamente, uno spazio d’attesa. Il cavaliere errante non sa cosa cerca,
ma cerca. Nel mondo attuale, abbiamo detto, si vedono moltiplicarsi gli spazi
di circolazione, di consumo e di comunicazione. Ciò che condividono coloro che
li frequentano, è una certa forma di anonimato relativo e provvisorio. Ma il
cavaliere errante era anche lui provvisoriamente anonimo. Al momento opportuno,
egli doveva rivelare il suo nome, «dichiarare la sua identità» come il
viaggiatore al controllo della polizia, il cliente che paga con la carta di
credito o l’internauta invitato a lasciare il suo indirizzo elettronico.
L’anonimato relativo di colui che frequenta un aeroporto, una stazione o un
supermercato o che naviga sullo schermo del suo computer può anch'esso essere
portatore di una poesia particolare, quella che si lega all'attesa. Al termine
dell’attesa non c’è niente, o magari un incontro. La migrazione con tutte le
sue fatiche, i suoi pericoli e le sue tragedie, s’inscrive nella stessa
prospettiva. La speranza, che si rivela spesso così illusoria, ordina la fuga
in avanti. Essa non si identifica con la felicità, ma tenta di scappare alla
sciagura. La felicità «stanziale», la felicità sedentaria non è accogliente,
spesso rifiuta i nuovi arrivati.
Ma non è escluso che colui che infastidisce la gente ben
installata a casa propria, nella figura dell’immigrato, sia senza dubbio colui
che suscita in loro la natura della loro felicità e le virtù della
sedentarietà. L’angoscia di coloro che proclamano senza tregua di essere a
«casa loro» è tale che questa pretesa diviene ogni giorno meno sensata a partire
dal momento in cui l’attuale mondializzazione, a differenza di quelle che
l’hanno preceduta, è coestensiva all’intero pianeta.
Il luogo d’accoglienza cui aspira il migrante è forse
altrettanto illusorio del paradiso perduto che il sedentario nostalgico crede
di difendere, ma è il risultato di un progetto con il quale egli si identifica.
In tal senso, i migranti sono i veri avventurieri del mondo contemporaneo. Ciò
che ci propongono di solito le immagini della nostra attualità è la
spettacolarizzazione delle tragedie dovute all'oppressione, alla guerra, alla
povertà, all'abbandono. Prima di pensare alla felicità della maggioranza si
deve cercare di preservarla dall'infelicità. La felicità non ha questa
dimensione collettiva e niente è più temibile della promessa incauta fatta ai
popoli di spendersi per la loro felicità. La felicità individuale è intensa e
fragile; essa passa attraverso la coscienza improvvisa di esistere e di essere
sé che si dà attraverso il bisogno e la presenza degli altri o di un altro. Il
diritto alla felicità è il primo dei diritti individuali e il dovere dei
politici è di renderlo concretamente possibile, non di realizzarlo, ancor meno
di imporlo. L’incontro, l’amicizia e l’amore mettono capo, durevolmente o no,
ad una possibilità di felicità che dona il suo senso alla vita nell’inventare,
non importa dove, un luogo che a loro non preesista.
di Marc Augé,
AVVENIRE di domenica 12 febbraio 2012