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mercoledì 2 ottobre 2013

Intervista a Richard Sennett

Intervista a Richard Sennett
realizzata da Barbara Bertoncin, traduzione di Sarah Baldissera

IL CONDIZIONALE ATTENUATIVO
Per vivere assieme a persone diverse da noi in società complesse non basta la buona volontà, sono richieste delle abilità pratiche, come l’empatia e un approccio non assertivo; la crisi delle scuole pubbliche e il ruolo dei social network; l’innovativa formula del sindacato americano dei servizi. Intervista a Richard Sennett.
Richard Sennett, sociologo, già professore di Sociologia alla London School of Economics e alla New York University, ha pubblicato tra l’altro, L’uomo artigiano, Feltrinelli 2008 e Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2012.

Lei da tempo si interroga su quali siano le "doti” necessarie a vivere nella società moderna, dove siamo chiamati a convivere con persone con una cultura diversa dalla nostra, che non capiamo, che a volte non ci piacciono.
Mi verrebbe da dire che le difficoltà di dialogo oggi riguardano anche la non facile cooperazione tra i Paesi forti e quelli deboli. Questo in Europa è un problema enorme. Un problema più per i forti come la Germania che per i deboli come la Grecia o l’Italia, devo dire.
Anche a questo livello, il bisogno di cooperazione c’è, ma le abilità per metterla in pratica scarseggiano. Purtroppo l’applicazione pratica di questi concetti nell’attuale situazione europea mi si è palesata solo dopo aver finito il libro.
La mia ricerca riguarda la capacità di costruire una relazione fra diversi, il che costituisce di per sé un’abilità. Quello che è importante da capire è che per vivere assieme a chi è diverso da noi, non basta la buona volontà, ci vogliono proprio delle capacità specifiche.
Io parlo di scambio dialogico, cioè aperto all’ascolto, di empatia, che è forse la virtù sociale cardinale, perché implica un interesse sincero per l’altro così com’è, cioè nella sua alterità (a differenza della simpatia, che pretende di immedesimarsi nell’altro). Un’altra competenza richiesta è l’uso del cosiddetto "condizionale attenuativo” e di quelle forme dubitative che lasciano aperto uno "spazio di ambiguità”.
Sono tutte cose che dobbiamo imparare dall’esperienza, sono proprio abilità pratiche.
Spesso il termine "cooperazione” viene usato con tono moralistico e si confonde con l’"avere un buon cuore”. In realtà, per come la vedo io, la cooperazione è un’attività pratica, che ha a che fare con abilità fisiche e sociali. Per esempio usare un tono dubitativo e non assertivo, che dunque stimoli il dialogo e il confronto, è un po’ come usare la minima forza necessaria nel maneggiare un oggetto fisico. Il dialogo, inteso come la creazione di una sintonia, richiede forme di curiosità nei confronti dell’altro; l’empatia significa minimizzare la capacità di resistenza che si incontra nell’entrare in relazione e può somigliare all’annullamento della resistenza che oppongono gli oggetti concreti al contatto. Ciò che cerco di evitare è la moralizzazione della cooperazione, che va invece vista in un contesto pratico.
Lei dice che la cooperazione è stata in qualche modo "corrotta” dalla solidarietà. Cosa intende?
È una faccenda terribile per le persone di sinistra. La solidarietà implica una sorta di unità, la quale richiede disciplina, che a sua volta implica una gestione gerarchica. È difficile che esista la solidarietà senza una politica gerarchica. Al contrario, la cooperazione è qualcosa di confuso, che nasce dal basso e che si fonda su uno scambio diretto, più che su programmi o politiche. È sempre qualcosa che ha a che fare con l’esperienza.
Io mi sento di appartenere a quella che viene chiamata la sinistra sociale, la cui espressione politica oggi è incarnata ad esempio nell’"Occupy movement”, qualcosa che non ha a che fare con l’ideologia, ma con l’azione diretta fra le persone.
La vostra rivista si chiama "Una città”. Ecco, il problema di andare d’accordo con gli sconosciuti ha molto a che fare con i contesti urbani. Il problema non nasce soltanto dal modo in cui ci comportiamo con immigrati o stranieri, ma anche da come ci comportiamo con persone diverse da noi per classe sociale. Ciò che sta accadendo nelle città moderne è che l’isolamento per classe, così come per etnia o religione, sta aumentando. È uno degli effetti della cosiddetta "gentrificazione”, cioè di quel processo per cui certi quartieri popolari o misti, dopo un intervento di riqualificazione, attraggono una popolazione più benestante, che via via sostituisce le famiglie della classe operaia che non possono più permettersi il prezzo degli affitti o la compravendita. L’effetto è che l’esperienza di vivere assieme a persone diverse da te perché più ricche o più povere diventa sempre meno frequente nelle città moderne.
Nelle grandi città europee le scuole svolgono un ruolo fondamentale nel mettere insieme persone diverse. Oggi tuttavia la scuola pubblica è in grave difficoltà e chi può manda i figli nelle scuole private.
In Gran Bretagna questo è un problema enorme perché le scuole private sono molto costose, si arriva anche a 15.000 euro di retta scolastica, cifre impegnative per lo stesso ceto medio. D’altra parte la qualità delle scuole pubbliche è peggiorata così tanto che i genitori sentono di dover fare qualcosa perché i loro bambini studino in scuole di livello più alto. Questa è una questione che ha investito anche la mia famiglia: il mio nipotino frequentava una scuola statale e non imparava niente. Alla fine i suoi genitori sono stati costretti a optare per una scuola privata, per quanto non tra le più costose. Può immaginare: in qualche modo è una sconfitta per una famiglia di sinistra. Ma la questione di base è che se si desidera una società in cui c’è più interscambio fra le classi, lo Stato deve fare di questo una linea politica esplicita. In Gran Bretagna abbiamo ancora un immenso apparato militare. Possiamo scegliere se investire i soldi in quello o nelle scuole statali. Forse in Italia non dovete affrontare questo problema... Penso che in Italia ci siano molti punti di forza di cui gli italiani non vogliono prendere coscienza. La vostra è una società meno competitiva. Nella quotidianità resiste un forte "collante” fra le persone. La società inglese è stata neoliberale per troppo tempo: le abitudini alla competizione e all’individualismo, incorporate nel neoliberalismo, sono state assorbite. Siamo molto più simili agli americani che agli europei, molto più aggressivi fra di noi. Il vostro problema, in Italia, sono le università. Gli studenti a cui ho insegnato qui, che arrivano da scuole pubbliche italiane, hanno una buona istruzione. Ma le università italiane non sono al livello di quelle britanniche.
Una cosa che mi ha colpito dell’Italia è la formazione di abili lavoratori manuali, di artigiani. Credo che noi britannici abbiamo molto da imparare da voi su questo, le vostre scuole tecniche sono eccellenti.
Ma oggi tutti i genitori vogliono che i figli frequentino il liceo...
Quello è un altro problema diffuso un po’ in tutt’Europa. Ne ho parlato ne L’uomo artigiano. Il prestigio legato allo svolgere un lavoro non manuale ha distorto la percezione della realtà. Secondo me oggi è molto meglio essere un bravo artigiano che un laureato disoccupato. Purtroppo c’è una specie di snobismo riguardo al lavoro manuale. Ma se io penso al mio nipotino, non ho dubbi: molto probabilmente se decidesse di fare l’elettricista farebbe una vita migliore che non se seguisse il percorso dei ricercatori universitari.
Un’altra questione è quella della comunità: in Italia c’è la Lega, in Francia Le Pen... Quando si parla di comunità, la destra sembra essere meglio attrezzata della sinistra...
Sì e questo è un problema serio. La destra ha colonizzato la discussione sulla comunità, e l’ha fatto in un modo preciso, cioè affermando che il valore della comunità è più importante del valore della sfera pubblica. La mia idea è che a sinistra dovremmo costruire una politica dal basso in modo comunitario, cercando però di tenere assieme sfera comunitaria e sfera pubblica piuttosto che separarle, cosa che fa la destra.
Se vogliamo parlare delle nostre città, c’è un problema urbanistico molto preciso: invece di concentrarci sul centro delle aree urbane dovremmo concentrarci sulla periferia. Abbiamo focalizzato tutta la nostra attenzione nel cuore della comunità dimenticandoci della condizione dei margini. Invece, per costruire la sfera pubblica, oggi bisogna concentrarsi proprio sulle zone di confine -fra ricchi e poveri, tra musulmani e cristiani, ecc.
Bisogna lavorare molto di più nella zona ambigua, di confine, nei quartieri periferici. Questo è anche un problema urbanistico: come si pianifica una periferia? Di nuovo, per rivitalizzare la sfera pubblica delle città c’è qualcosa di molto pratico che può essere fatto. Bisogna smettere di considerare la sfera pubblica come un centro morto, un cuore formale della città.
Considerando il funzionamento odierno del­la società, riguardo la cooperazione lei ha segnalato che c’è una carenza di tempo. C’è anche una carenza di luoghi? Ad esempio in Italia, nell’800, c’erano le famose "case del popolo”, oggi che cosa potrebbe esserci di analogo?
Ci sono molte cose che potremmo fare. Ad esempio, nei centri commerciali potrebbero nascere attività di tipo diverso. Ora i centri commerciali sono spazi dedicati soltanto al consumo al dettaglio, ma potrebbero facilmente diventare spazi più complessi, dove potrebbero aver sede ambulatori, anche uffici pubblici, perché no?
Vorrei chiarire una cosa sulla cooperazione: quando penso alla cooperazione in termini urbani, non penso semplicemente a delle persone che parlano fra loro. Molte persone infatti non definirebbero cooperazione una negoziazione non-verbale fra persone. Questa interpretazione deriva da una storia della cooperazione che ha dato tantissima importanza alla trattativa verbale. In realtà con cooperazione io intendo una condivisione fisica, materiale, degli spazi. Far sì che le persone si mescolino fisicamente significa, ad esempio, non aver paura di vedere una donna con lo hijab, il velo islamico. Si tratta di riconoscere il suo diritto di essere lì, di non evitarla o scappare, molto banalmente di coesistere nello stesso spazio. Tutto questo è contenuto nel significato della parola inglese cooperative. Va da sé che questo in un ambiente urbano ha molto a che fare con il comportamento fisico oltre che con il linguaggio parlato.
A una lezione di qualche mese fa alla London School of Economics, lei ha parlato di Seiu, Service Employees International Union, il sindacato del personale dei servizi, che negli Stati Uniti è in piena espansione grazie a una formula innovativa. Ce ne può parlare?
Sì, Seiu è un’esperienza interessante e non è l’unica, altri sindacati stanno sperimentando nuove formule. La loro idea di base è che servono istituzioni intermedie nella società civile. I sindacati sono nella posizione ideale per giocare quel ruolo, purché non si limitino a essere agenti di contrattazione economica. Oggi i soggetti che sono in espansione sono quelli che si rivelano anche socialmente creativi, che si preoc­cupano di organizzare asili nido, di gestire ambulatori o assistenza agli anziani, ma soprattutto che sono in grado di creare un senso di appartenenza. Non conosco la situazione italiana, ma in Gran Bretagna e negli Stati Uniti questa tendenza si sta rafforzando.
Ovviamente c’è una discussione interna al movimento sindacale perché i sindacalisti si vedono ancora come quelli che combattono contro il capitalismo per il bene dei lavoratori e questa funzione viene intesa in termini puramente economici. Ma altri stanno iniziando a sperimentare idee diverse e io sono ottimista.
Qualche settimana fa, sono stato ad un incontro in Grecia dove abbiamo discusso di questo modello, e di un suo ruolo nella società civile greca. I soggetti politici si sono allontanati dalla gente e i lavoratori si trovano in una condizione disperata.
Dev’esserci qualcosa di cui le persone fanno parte che è più grande di loro. Alcuni sindacati greci sembrano interessati a ciò, altri restano legati alla vecchia politica -penso al Pasok- e non vogliono sentirne parlare.
Credo che in Italia ci sia lo stesso problema...
Voi avete anche associazioni legate al lavoro artigianale, potete sperimentare un tipo diverso di istituzione intermedia. Non credo che questo nuovo soggetto emergerà dalla tradizionale politica di sinistra. C’è bisogno di qualcosa di nuovo.
Pensa a una specie di sindacato dei cittadini?
Penso a un’associazione di lavoratori che non sia limitata ad una professione, e che oltre ad occuparsi dei problemi economici affronti i problemi sociali e di convivenza.
Quindi non parlo di "cittadini” nel senso politico, ma di cittadini nel senso di persone che vivono nelle città. Inoltre, penso a un tipo di associazione che non è necessariamente locale. All’interno del Seiu, le persone comunicano soltanto via mail perché vivono in città diverse. Ecco, questa possibilità di sviluppare e ampliare le reti è una pratica da sperimentare.
Lei si è interessato anche al ruolo di internet e dei social network.
Nel libro mi soffermo su "Google Wave”, un’applicazione per agevolare la cooperazione che però è fallita perché gli sviluppatori non hanno capito il punto. Hanno pensato alla cooperazione come alla ricerca della soluzione di un problema, non come a uno scambio libero, paritario e aperto a esiti imprevisti. È un errore di programmazione emblematico.
Facebook e Twitter sono strumenti molto più complessi ed interessanti. Come sapete, Facebook fu fondato, in origine, come un servizio per mantenere i contatti tra studenti. In breve però è diventato, più che uno strumento di comunicazione, una sorta di vetrina. I proprietari di Facebook hanno cercato di strumentalizzare questa cosa a fini commerciali.
L’aspetto interessante è che questo social network può essere convertito a fini davvero comunicativi.
Nessuno nella Primavera araba, quando si è iscritto a Facebook, era interessato a comprare un paio di blue jeans o una maglietta. Con Twitter è un po’ la stessa cosa: nato per segnalare articoli interessanti, o mandare brevi messaggi, dei "tweet” appunto, poteva essere "piegato” per essere usato come uno strumento di coordinamento politico. Nell’Occupy Movement a New York, ad esempio, usiamo Twitter in continuazione perché è il sistema più efficace per mettere in contatto le persone che sono in punti diversi della città.
Ecco allora che ciò che mi sembra interessante in entrambi i casi è come la tecnologia possa essere "piegata” per usi che non erano nell’intenzione dei programmatori. E, ripeto, trovo curioso che nel caso di Google wave, dove invece lo scopo era la cooperazione, il risultato sia stato fallimentare.
L’aspetto intrigante dei social media mi sembra questo: come usare la tecnologia in modi che rendano possibile una cooperazione complessa.
Nella Primavera araba o in Siria abbiamo assistito a un uso politico di Facebook, in cui in vetrina non c’eri più tu, ma gli altri. In questo modo Facebook ha assunto la funzione di una telecamera e quindi di denuncia. Anche qui: la tecnologia era stata concepita in modo che la telecamera fosse rivolta in direzione dell’utente, in una funzione riflessiva, di specchio appunto, ma poi gli utenti hanno addirittura rovesciato quest’idea mettendo in vetrina quello che vedevano e rendendolo pubblico. Penso che con lo sviluppo della social technology, i social media sempre più spesso verranno usati in modi che i loro inventori non avrebbero mai immaginato.
Lei distingue tra "attitude”, l’atteggiamento, e "behaviour”, il comportamento effettivo per ricordare che chi vive in comunità omogenee ha un atteggiamento più curioso e socievole verso i diversi, mentre chi vive in quartieri misti ha spesso un atteggiamento di diffidenza, ma poi però nel quotidiano può praticare comportamenti collaborativi. Può parlarne?
È una questione molto complicata. Spesso, persone con un atteggiamento che viene percepito come razzista quando hanno a che fare con qualcuno di cultura o religione diversa non lo sono affatto. Infatti ho sempre pensato che i sondaggi sull’atteggiamento siano molto fuorvianti perché non rivelano il comportamento reale delle persone.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il razzismo produce una forma di indifferenza verso gli altri. Alla fine semplicemente non li vedi. Sono gli uomini e donne "invisibili” di Ralph Ellison. Non è il caso nostro, qui in Europa.
Sono moderatamente ottimista sul destino dell’Europa. Non saremo il centro del mondo nei prossimi anni, ma non importa. Non c’è niente nella vita che richieda l’egemonia. La mia speranza è che l’Europa col tempo somigli di più alla Norvegia: una società civile onesta, con un’abitudine alla cooperazione ormai radicata. A mio avviso quella norvegese è una società modello. Dopo la Seconda guerra mondiale, anche la Gran Bretagna ha vissuto un periodo analogo: eravamo stati colpiti così gravemente che le persone dovevano collaborare per rimettere in piedi la società e il paese. Purtroppo, l’avvento della società consumistica neoliberale ha ridimensionato quel tipo di cooperazione quotidiana spontanea.
Questa crisi economica potrebbe essere un’opportunità?
In quanto persona che si interessa di politica economica posso affermare che la parola "crisi” non è adatta per esprimere ciò che sta accadendo. La crisi è una cosa temporanea. Finché il capitalismo e la struttura statale attuali resteranno in vigore, la cosiddetta crisi durerà per decenni. La crescita rallenterà, ci saranno livelli di disoccupazione molto alti e il sistema finanziario crollerà periodicamente. Penso che questa condizione sia destinata a diventare una condizione normale, dovuta al fatto che in Europa ci sono più lavoratori di quanti ce ne sia bisogno. Dobbiamo imparare a convivere con la consapevolezza che questo sistema economico non solo non ci porterà a condizioni migliori, ma al contrario sta degradando la qualità della nostra vita. Questa non è una crisi da cui ci risolleveremo. Il problema pertanto è come resistere e come conviverci.
Il fatto è che parliamo di una situazione inedita. Non c’è infatti qualcuno di preciso contro cui ribellarsi, come si faceva nel diciannovesimo secolo. I padroni dell’Europa sono nel Medio Oriente, nell’Estremo Oriente, negli Stati Uniti. Prendersela con la banca e il banchiere locale è inutile. È difficile districarsi nel neoliberalismo globalizzato: gli attori non sono mai presenti.
Bisogna costruire una contro-società resistente che affronti quest’oppressione, consapevole che, per lo meno nella nostra generazione, non scomparirà magicamente con la ripresa della Borsa.
Insomma, invece di essere angosciati, dobbiamo essere più forti. Forse la mia analisi è sbagliata, forse una rivoluzione in cui tutti i banchieri saranno decapitati è possibile, ma francamente non la vedo molto probabile.
All’inizio ha citato l’Unione Europea. Ha un ruolo in questo discorso della cooperazione?
Se stessi ancora scrivendo il libro, dedicherei un intero capitolo ai burocrati di Bruxelles. La prima considerazione che mi viene da fare è che per loro regolamentazione è sinonimo di cooperazione.
Non hanno alcuna sensibilità per le relazioni sociali informali. Tutto è codificato, comunicano fra loro in modo formale.
Penso che questo abbia contribuito a delegittimare il progetto europeo. Inoltre, molte persone che lavorano nella burocrazia non sono molto qualificate e quindi hanno l’atteggiamento tipico delle persone mediocri, che è quello di fare riferimento a norme e regolamentazioni anche nel relazionarsi alle altre persone.
Questo perché mancano di quelle abilità sociali che permetterebbero loro di gestire le complessità che emergono in uno scambio informale. Dall’altra parte, quelli che hanno potere, come la signora Lagarde, sono così distaccati dalla vita di tutti i giorni che è quasi impossibile per loro avere una percezione della realtà. Anche i suoi commenti sul fatto che la Grecia debba pagare più tasse... Beh, se si considera che lei invece, in nome del suo particolare status fiscale, non versa imposte ad alcuno Stato...
Insomma, la mia esperienza in quest’ambito è problematica. È un peccato, perché io invece vorrei che questo progetto avesse successo. Ma se lo stesso comportamento delle persone che gestiscono l’Ue non è cooperativo...
Lei parla anche del "piacere” di stare insieme tra diversi. Può spiegare?
Il piacere di stare insieme è un piacere molto maturo che non ha niente a che fare con la soddisfazione sessuale, sensuale. Al contrario, ha a che fare con il sentirsi a proprio agio di fronte alla complessità. È un piacere adulto che consiste nel non scappare, nel non allontanarsi quando le cose si fanno difficili e nel sentirsi sicuri di avere le doti necessarie per gestire situazioni complesse
. Avrei forse dovuto usare una parola diversa, magari gratificazione, non lo so.
Alla fine è il piacere legato al superamento della paura dell’altro. È qualcosa che dà alle persone un senso di sicurezza e la sensazione di essere adeguate alle sfide della società in cui vivono. Per me la serenità legata al sentirsi capaci di gestire la complessità è un piacere intenso. È qualcosa che dà anche soddisfazione alle persone.
 
(a cura di Barbara Bertoncin. Traduzione di Sarah Baldiserra)
Da UNA CITTÀ n. 196 / 2012 Agosto-Settembre