lunedì 4 novembre 2013

Al Grand Hotel dei "matti" intervista con Salomón Resnik

Intervista a Salomón Resnik, psichiatra e psicoanalista tra i più grandi studiosi del disagio mentale.

Se un discorso sulla follia lo fa un personaggio della statura di Salomón Resnik, sarebbe il caso di ascoltarlo attentamente. Le sue parole potranno risultare forti, o anche sgradevoli per chi è incline a pensare che la condizione degli psicotici - sottratti agli orrori della scena fissa e immutabile del manicomio - sia assolutamente migliorata. Non è proprio così. La chiusura dei lager per i malati di mente è stato - occorre ripeterlo? - un passo gigantesco, dovuto al coraggio e all'umanità di Basagliae del suo gruppo di psichiatri democratici. Ma non è stato un passo risolutivo, né di per sé poteva esserlo, e anche oggi la realtà che vivono i malati e i loro famigliari - tanto più se poco agiati - somiglia in tutto a un incubo, a una discesa nell'inferno della paura e della solitudine.
Lasciamolo dire a Resnik, che nel Duemila avrà ottant'anni e da mezzo secolo si occupa di psicotici nella doppia veste di psichiatra e di psicoanalista, da medico e da raffinato umanista:
"Il trattamento della follia rimane una grande tragedia. Intanto, c'è pochissima gente motivata e con una buona formazione, capace di entrare davvero in contatto con il paziente. E poi - quel che è peggio - raramente le équipe sono affiatate. La nostra è una società molto competitiva, e la nostra professione lo è estremamente. Il paziente, già dissociato, coglie la mancanza di collaborazione tra il terapeuta che utilizza strumenti analitici, quello che prescrive manciate di farmaci, l'infermiere frustrato... E' una percezione che rende il malato ancora più ammalato.
"E poi: i cronici, non li cura nessuno. In genere vivono con le famiglie, che non sono proprio le strutture più adeguate... Sia chiaro, neppure io abiterei con uno psicotico cronico, è impossibile, l'ansietà è intollerabile. Ci vogliono - bisogna dirlo chiaramente - nuove istituzioni, aperte o anche chiuse, perché il ricovero è importante: non si risolve il problema con il non ricovero. Il paziente ha bisogno di sentirsi accolto, e del resto a cos'altro rimanda il concetto di ospedale se non alla possibilità di essere ospitato, ricevuto, accolto?"
Chiamiamolo magari Grand Hotel dei "matti", non è il nome che conta, ma diamo un luogo a chi è colpito dalla malattia mentale. E' questo che sta dicendo, professor Resnik?
"L'importante è che il malato trovi in quel "luogo" un'équipe affiatata e sostenuta da una forte motivazione affettiva ad accoglierlo"
Da grande affabulatore, lei racconta storie analitiche come favole fuori del tempo, e con un linguaggio che rimanda alla letteratura e all'arte. Sembra piacerle particolarmente Antonin Artaud: quante volte avrà citato quella sua frase piuttosto enigmatica: "Non si può guarire la vita"... Perché? "Ma perché Artaud ci ricorda che la vita è un'avventura, imprevedibile, e che quello di normalità e patologia è un concetto formale, con una certa funzione classificatoria e basta. Nessuno è assolutamente psicotico e nessuno è assolutamente sano, e soprattutto nessuno di noi è Dio e può sentirsi così onnipotente da credere di guarire qualcuno. Io sono certo di poter aiutare uno psicotico a sviluppare le parti sane della sua personalità, non sono affatto certo di guarirlo".
Lei ha descritto la psicosi come una metempsicosi: il corpo è lì, la psiche è altrove, dispersa, errante. Può chiarire meglio?
"Il mondo del paziente schizofrenico è di pietra, di legno, di acciaio, di un materiale che possa opporsi al sentimento di disintegrazione minacciato dalla fragilità del suo Io. E' un paziente che ha un'enorme difficoltà a tollerare non solo il dolore, ma anche il piacere di vivere. I suoi sentimenti sono come congelati - non a caso ho intitolato Temps del glaciation l'ultimo lavoro che ho consegnato all'editore francese. E allora, gran parte del lavoro analitico è proprio quello di capire dove sono finiti i pensieri migratori, discordanti, confusi, e farli tornare a casa, nel corpo del paziente"
In ogni caso la follia rimane un gran mistero.
"Giusto".
Quanti sanno dire con precisione cosa bisogna fare con uno schizofrenico?
"Pochi. Mi creda, pochissimi... Ed è molto difficile trasmettere questo genere di sapienza, si può stimolare l'apprendimento - cosa che faccio con i miei allievi - ma poi dipende dal talento, dalle motivazioni, dall'umanità di ognuno.
Sì, devo dire che ottengo buoni risultati anche con i pazienti cronici. Ma mai da solo... In una delle mie periodiche attività nel suo Paese, ho lavorato come consulente presso l'ospedale psichiatrico di Verona. E - insieme con ottimi medici e infermieri - abbiamo ottenuto successi lusinghieri. Non è vero che non si possa far niente con i cronici, ne abbiamo le prove".
Lei è uno psichiatra e un analista: qual è la formazione che utilizza di più nel suo lavoro ?"
"Né l'una né l'altra, tutte e due, direi soprattutto l'intuizione, quello che so e soprattutto quello che non so... Anche il setting con questi pazienti si crea, s'inventa, s' improvvisa - ma con una base, nel mio caso con cinquant'anni di esperienza alle spalle".
Ma qual è la cosa più importante nell'incontro con uno psicotico?
"Intanto non bisogna mai dimenticare che si tratta comunque di relazioni tra persone, e questo implica un'etica e un'indagine mai fredda, ma sempre vissuta e affettiva. La cosa più importante - direi fondamentale - è aver fatto una buona analisi che ti ha permesso di entrare in contatto con quei nuclei psicotici che tutti abbiamo... E' una questione di misura, ma senz'altro in ognuno di noi ci sono sempre anche parti nevrotiche e anche parti psicotiche: questo non lo dico io, lo ha già detto Bion".
Lei scrive: in ogni individuo ci sono zone vive e zone morte. Un' immagine per dire cosa? "Un'immagine che rimanda alla complessità dell' anima. Ma direi anche un problema che si pone in modo particolare per uno psicotico. Se un mio paziente mi dice "sono un soldato morto", io non devo mai dimenticare che comunque è un uomo vivo che mi sta parlando e ha dentro di sé una zona non psicotica, non morta".
Concludiamo con un aneddoto molto divertente che la riguarda... Si ricorda di quella sera a Londra, tanti anni fa, nel ' 57, di quel suo appuntamento con Melanie Klein. Può raccontare lei, che successe? "Ah, sì. C'era una gran nebbia, quella sera, e il tassista mi lasciò nei pressi di una via che non riuscivo a trovare. Vidi una signora, mi avvicinai e chiesi "Sa dove abita Melanie Klein?". Lei mi guardò sconcertata, e io mi accorsi che ero di fronte ad Anna Freud... Con i rapporti che c'erano tra quelle due signore!".
di Luciana Sica da La Repubblica 21 maggio 1999

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