sabato 7 settembre 2013

Il racconto dell'identità di Adriana Cavarero

Io direi che se noi prendiamo la letteratura, soprattutto la narrativa, cioè quel tipo di letteratura che è la narrativa, il raccontare storie, il raccontare storie di un personaggio o la storia di qualcuno, si potrebbe cominciare da Omero, per esempio, che in fondo raccontava la storia di Ulisse e di Achille. La letteratura è quel tipo di discorso che rende conto dell'unicità, dell'identità unica personale e quindi dell'unicità. La filosofia invece è un tipo di discorso che fin dall'inizio aspira all'universalità. Ad esempio, se voi guardate la sfinge, che è questo personaggio mitologico così importante e così simbolico nella storia della nostra cultura, la sfinge appunto legata al personaggio di Edipo. E a me piace indicare la sfinge come uno degli elementi iniziali di questa divaricazione, di questa separazione tra letteratura, fra narrativa io preferisco dire, e filosofia. La sfinge pone una domanda: "Qual'è l'animale, qual è quell'animale che cammina prima con quattro gambe poi con due, poi con tre?" - lo sapete - e Edipo risponde: "L'uomo". L'uomo è un ente universale, l'uomo vale per tutti gli esseri umani, al limite l'uomo vale per uomini e donne a quanto pare, per lo meno nelle intenzioni di Edipo. E questa è appunto la caratteristica, l'elemento di universalità. Ora è lo stesso Edipo, che risolve il problema della sfinge, quindi è una specie di filosofo, sa tutto, sull'universalità dell'uomo, lo stesso Edipo non sa chi è, e viene a saperlo dalla sua storia di vita che altri gli raccontano. Questo secondo me è uno scenario originario della nostra cultura, della cultura occidentale, dove si segna chiaramente la distinzione, anzi la divaricazione fra letteratura e filosofia. La letteratura non ha a che fare con l'identità unica. La filosofia ha a che fare con degli universali e invece la narrazione, la narrativa conserva questa capacità di dire chi ciascuno o ciascuna è. E questo mi pare molto importante.
 
Esattamente, esattamente. Hai detto molto bene. Ovviamente la filosofia, prendiamo quella greca, dice di parlare dell'uomo in universale, ma in verità, come noi sappiamo, parla del maschio greco, possibilmente ateniese, possibilmente parlante il greco e con determinati, diciamo, diritti di cittadinanza. Quindi viene sempre contrabbandata una universalità che invece, come dicevi tu, copre una particolarità e questa è una caratteristica purtroppo non solo della filosofia, ma di quella che possiamo chiamare la storia della cultura. Nella filosofia ciò è particolarmente evidente, e secondo me, ciò che è interessante in questa copertura, in questa cancellazione delle differenze, è che una differenza particolare, anzi una somma di differenze particolari: l'esser maschio, l'esser greco, l'esser cittadino libero, l'esser non schiavo, tutta questa differenza viene contrabbandata per universalità e le altre differenze vengono invece significate come inferiorità. La donna è il novus maschio, lo schiavo è il non libero, e così via. E' molto chiaro questo ne La politica di Aristotele, ma non è soltanto il grande Aristotele che dice queste cose. Questa posizione universalizzante e assolutizzante attraversa un po' tutta la storia della filosofia.
 
Io non vorrei fare della differenza sessuale di nuovo un paradigma astratto, ma invece un paradigma che corrisponde alla incarnazione singola, ossia alla unicità, per dirla in maniera più semplice. Finora c'è sempre stato l'Uomo, con la 'U' maiuscola. Io non voglio creare né una Donna, con la 'D' maiuscola, accanto all'Uomo con la 'U' maiuscola, né annegare l'Uomo in un'altra Donna, con la 'D' maiuscola. Ci sono tante donne, tanti uomini, ognuna, ognuno di noi è unicità, un essere unico incarnato, incarnata. E nel dare conto di questo il fattore elementare dell'incarnazione sessuata deve essere rispettato. E la mia posizione è che la narrazione, fin dall'inizio, ha rispettato questo. La filosofia in gran parte non l'ha fatto. (...)
 
 Nel nostro vocabolario, intendo dire non soltanto in un vocabolario di tipo filosofico, ma nel vocabolario comune del nostro parlare, "identità" è una parola molto ambigua, perché si dice, per esempio, l'identità sessuata, l'identità culturale, l'identità etnica. Ora, al centro della mia ricerca c'è l'identità personale, ossia l'identità che corrisponde alla tua assoluta differenza, che si può chiamare anche unicità. Ossia, ancora più precisamente, quell'identità che può rispondere alla domanda: "Chi sei?" Il "chi" qui indica una unicità che tu non condividi con nessun' altra e nessun altro qui. Ma accanto al "chi sei", c'è anche il "cosa sei". E allora io presumo che tu sia italiana, che sia una studentessa del Mamiani, che tu condivida, che so, certe preferenze, certe appartenenze culturali, etniche, familiari. Tutto questo designa il tuo "cosa sei". E " che cosa sei" oltre a questo? Ovviamente tu appartieni anche al genere femminile e quindi una risposta: "cosa sei" potrebbe essere: "Sono una donna, non sono un uomo". Ora tutti questi "che cosa sei", culturali o, per esempio, riferentesi al genere sessuale, ad esempio: "Sei una donna", sono rappresentati simbolicamente, cioè hanno una valenza, hanno un significato nell'ordine simbolico. E tradizionalmente "che cosa sei", "Sono un uomo" ha significato: "Sono il rappresentante più interessante del genere umano. Sono destinato alla politica, sono destinato al potere". "Che cosa sei?". "Sono una donna", tradizionalmente ha significato più o meno, "sono destinata alla casa, sono destinata alla maternità, sono un pochettino irrazionale e sentimentale". Tutti questi stereotipi, che possiamo anche chiamare identità sociali o identità collettive, ecco, in luogo della crisi di cui si parlava prima, per cui si dice "I ragazzi sono un po' in crisi nella loro identità", è a questo livello che si gioca, ossia si gioca a livello delle identità collettive, perché una certa identità collettiva, un certo stereotipo della mascolinità è entrato in crisi, non funziona più e non funzionando più ovviamente si riflette anche sull'identità invece personale, sull'unicità, perché il distinguere il "chi" dal "che cosa" è una distinzione che io faccio a livello metodologico, ossia a livello anche di comunicazione, comunicazione anche verbale, perché voglio che ci capiamo. Ma nella vita di ciascuno e di ciascuna di noi non c'è mai una distinzione molto netta. Ossia il mio "chi sono" a cui si può rispondere soltanto raccontando la mia storia è altamente imbevuto, altamente addirittura inscindibilmente imbevuto, immerso nel "che cosa" sono. Non è possibile una distinzione netta.
 
Uno dei temi della narrazione è appunto l'amore. L'amore, che è il luogo dove l'unicità incarnata, di cui si parlava prima si mette in gioco. Non si ama mai un universale, si ama sempre un particolare. "E' te che amo, con questo viso, questa vita, questa storia. E' la tua esistenza che amo". Ci sono molti pensatori e anche pensatrici - adesso voglio ricordare Hannah Arendt che io amo molto - che dice: "Non si ama mai in generale il genere umano. Questo è un modo di dire. Quando si ama, si ama sempre qualcuno nella sua unicità". E allora così, come nel raccontarsi - arte in cui le donne veramente eccellono - si ha sempre a che fare con una unicità incarnata, anche nell'amore è sempre l'altro, è sempre "chi sei" che io amo, non "che cosa sei". E quindi ci sono degli abiti di esperienze, non prevalentemente femminili, ma in ogni caso molto praticati dalle donne, dove questa unicità trova parola, trova significazione. Tanto più nell'epoca contemporanea.
 
Io non amo i pensieri unici, per cui non sarei affatto per l'eliminazione della differenza sessuale, tantomeno per la eliminazione delle differenze; mi pare una ricchezza che deve essere rispettata.
Io non posso dire cosa vuol dire esser donna, cosa vuol dire esser maschio, che sarebbe una forma di totalizzazione. Ma ci sono determinate esperienze, anche del proprio corpo. Pensiamo, ad esempio, alla maternità o alla differente esperienza del corpo femminile, che ogni donna può avere di sé o del corpo maschile, che ogni uomo può avere di sé, queste differenze è ovvio che hanno molti sensi possibili, ma in partenza sensi tendenzialmente diversi. E perché tagliare questa possibilità di espressione? Ossia perché andare verso l'essere unico, non importa se maschile o femminile. In fondo veniamo da una tradizione, che per duemila anni ha teso a uniformarci a questa idea di uomo, questa idea di maschio greco libero.
 
Ci sono molte donne, nei luoghi della trasmissione, nei luoghi dell'educazione, e tuttavia queste donne spesso, non sempre adesso per fortuna, spesso trasmettono la cultura che hanno ricevuto, ossia trasmettono questa cultura, questo sapere che è fortemente segnato al maschile e quindi contribuiscono diciamo alla loro emarginazione o per lo meno contribuiscono in maniera, involontariamente colpevole, alla emarginazione delle loro studentesse e alla tendenza ad emarginare dei loro studenti. E questo è uno dei problemi della cultura, del sapere e dell'educazione, ed è l'elemento, secondo me, cruciale, nodale. Quello che io ho nelle mie speranze, non è semplicemente cambiare meccanicamente il sesso, di coloro che stanno nella stanza dei bottoni, ma quello che è nelle mie speranze è che un nuovo ordine simbolico, un nuovo modo di pensare la differenza, una differenza che non sia gerarchia - questa è la parola d'ordine che io ho: una differenza che non sia gerarchia -, una differenza che non sia discriminazione, ma anche una differenza che non sia semplicemente assimilazione. Siamo tutti uguali. Non è vero. Ognuno, ognuno di noi è differente, ecco. Tutto questo non tradotto in una gerarchia appartiene, a mio avviso, a un possibile ordine simbolico, che può cambiare la realtà, può cambiare il nostro stare nel mondo e che ha il suo punto cruciale nell'educazione, nella trasmissione. E in un certo senso  è in gran parte in mano alle donne. Quindi è una grande sfida.
 
Quando dico racconto, il racconto di vita, io non intendo un racconto che vada dalla nascita alla morte o che abbia una completezza. Ma questo modo di raccontare che si ha, per esempio, nelle amicizie, e che si ha per esempio nei rapporti d'amore, nei rapporti d'amore c'è questa tendenza a dire non che cosa si è , ma chi si è e a volere capire la storia dell'altro e volere raccontare la storia all'altro. Ma chi mi conosce? I miei amici, le mie amiche? Chi mi conosce può raccontare la mia storia, naturalmente non una storia completa. E allora io chiedo "chi sono" alle mie amiche, ai miei amici, e posso dire ad essi o ad esse chi essi o esse sono. In fondo la biografia - qui abbiamo un esempio di biografia di un importante italiano, che è Dario Fo' - ecco io credo molto di più in una biografia scritta su Dario Fo', che non nella autobiografia scritta da Dario Fo' medesimo, perché questa unicità è per me una unicità esposta, ossia una unicità fragile, una unicità che si affida agli altri. Io non amo l'unicità titanica, romantica, narcisistica. Questo sarebbe di nuovo un grande inganno, un grande modello eroico, di cui non abbiamo bisogno.
Tartto da Rai Educational - Filosofia - Incontro con studenti di Adriana Cavarero

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