La conversazione di questa sera con Adriana Cavarero, all’insegna del
"c’era una volta...". Dico questo perché credo che con Adriana
Cavarero, autrice tra l’altro di un libro che è intitolato Tu che mi guardi,
tu che mi racconti; Filosofia della narrazione uscito l’anno scorso per
Feltrinelli, quando si discuta di identità, si vada subito a parlare di qualcosa
che ha a che fare con la dimensione del racconto, con la narrazione, con la
nozione di narratività. Intanto Le diamo il nostro buonasera, e
benvenuta a questa puntata di "Questioni di filosofia". Perchè la
questione dell’identità lei la lega alla questione della narrazione? Che cosa
c’entra il racconto con il gioco della nostra identità individuale, personale,
di soggetti?
ADRIANA
CAVARERO: - Potrei citare Karen Blixen (la scrittrice danese che pubblicò quasi
tutte le sue opere con lo pseudonimo di Isaac Dynesen) che in un bellissimo
racconto intitolato Il secondo racconto del cardinale affronta il
problema del rapporto tra narratività ed identità, descrivendo la seguente
situazione: c’è una signora che chiede al cardinale: "Ma tu chi sei?", e a questa domanda "chi sei?" il
cardinale risponde: "Risponderò con una regola classica: racconterò una storia". Questo
tipo di domande richiedono l’identificazione di una persona, l’individuazione
di essa colta in tutta la sua irripetibilità, ossia nella irripetibile
esistenza che ciascuno di noi ha, e c'è
una sola domanda capace di far riemergere questa esistenza in tutta la sua
irripetibilità: "Chi sei?" Perché se io chiedo: "cosa sei?" ebbene, allora posso
rispondere accennando a una mia qualità, al mestiere che svolgo, a una mia
appartenenza culturale, alla mia natura biologica, la mia specie di
appartenenza... ma il "chi sei?" ha una sola risposta intesa come
risposta verbale che può rendere il suo contenuto dotato di senso. Risposta che
si dà nel discorso e che è appunto la narrazione, il raccontare una
storia. In questo caso è ovviamente la storia di una vita.
(…)
La mia posizione, che poi è la posizione tramandataci da Hannah Arendt, non
focalizza tanto il problema dell’identità considerandola come una sostanza, ma
pone altresì attenzione sul problema dell’identità impostata a partire dal
fatto che ciascuno e ciascuna di noi, vivendo
e agendo, come dice Hannah Arendt, mostri concretamente chi è,
lasciandosi dietro una storia di vita. La differenza sostanziale tra
queste due impostazioni che ho appena elencato, direi che stia proprio questa:
intendere l’identità come sostanza significa legare l’identità a una sorta di a
priori trascendentale, mentre l’identità
che corrisponde a una "storia di vita" è, letteralmente, ciò che
ci si lascia dietro. Insomma ciò che non si controlla, tutto quello
che, in un certo senso, non si progetta e che si lascia dietro in quanto
storia di vita, e che può avere un’espressione verbale soltanto nel
racconto di questa storia di vita. Nella mia particolare posizione su queste
tematiche io, ovviamente, condivido in pieno il lascito teoretico di Hannah
Arendt, per il quale questa storia di
vita non si dà mai nella forma dell'autobiografia, ossia nella sua forma
narcisistica (nella quale io posso dire chi sono solo raccontando la mia
storia), ma si dà nella forma della biografia, nella quale è qualcun altro a raccontare la mia storia. E
questo significa che l’identità così intesa non solo non è sostanziale ma non è
neanche isolata, monolitica, solitaria, solipsistica. E' un’identità che possiamo definire relazionale, che si dà
solo nella "relazione con l’altro/con l’altra". Lei citava prima
questo titolo curioso del mio ultimo libro che è appunto Tu che mi guardi,
tu che mi racconti e questo titolo curioso tenta proprio di alludere a
questi due principi fondamentali per il processo di identificazione che l’altro che guarda, o l’altro che racconta: colui o colei,
che può esplicitare la mia identità, può
offrirmi, donarmi la mia identità nella forma di una storia di vita
raccontata da lui o da lei. Insomma: il titolo avrebbe potuto anche essere Raccontami
la mia storia, che è una sorta di paradosso, se volete. Certamente, se si
pensa ad alcune scene come, per esempio, quelle desumibili di un’amicizia, o
tante scene d'amore non è poi così un grande paradosso.
CATUCCI:
(…) Discutiamo un contributo di Paul Ricoeur:
Sostiene
Ricoeur che la questione dell’identità assuma una forma problematica perché noi
disponiamo di due modelli di identità.
Nel
suo lavoro Ricoeur ha tentato di fissare due sensi di identità parlando da una parte di identità/idem (medesimezza) per usare una terminologia
latina, e l’altra di identità/ipse
(ipseità). Ciò che maggiormente
interessa a Ricoeur è l’identità/ipse.
Ma
che cosa ci intende con identità/idem?
è l’identità di qualcosa che resta, mentre le apparenze o, come si suol
dire, gli accidenti cambiano, ed è il modello filosofico che fin
dall’antichità è stato chiamato dell'identià sostanziale. L’identità/ipse della quale,
invece, ora parla Ricoeur, non implica immutabilità, staticità, ma, al
contrario, si può arrivare all’esempio estremo in cui questo tipo d’identità si
viene a porsi nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei
sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri del soggetto. L’esempio più
notevole di questa identità/ipse (l’identità di me stesso, in quanto unico),
è quello del mantenimento di una promessa.
La
promessa è un esempio notevole perché non abbiamo a che fare solo con un
soggetto che promette come se fosse una identità sostanziale. Al contrario: io
mantengo la mia promessa nonostante
tutto quello che mi succede, e che succede nel mondo circostante, a partire dal
momento in cui la pronuncio, e nonostante tutti i miei cambiamenti d’umore. E
questa è un’identità che, secondo Ricoeur, si può chiamare di mantenimento
più che di sussistenza: Io sono
e mi conservo come lo stesso Io, nonostante non sia più identico,
nonostante io sia cambiato - nel - tempo.
Dunque
esistono due rapporti di continuità del
soggetto con il tempo. Uno è un
rapporto in qualche modo di immutabilità, all'interno della sostanza. L’altro è invece quello che Ricoeur
definisce di identità narrativa,
volendo dire con ciò che l’identità di un soggetto capace di mantenere una
promessa è strutturata come l’identità del personaggio di una storia, di una
narrazione.
CATUCCI:
- Ecco; Adriana Cavarero, a quello che diceva Paul Ricoeur, attraverso questo
esempio della "promessa", lei vorrebbe aggiungere qualcosa?
CAVARERO:
- Sì. La distinzione di Ricoeur è chiarissima e ha appunto questo grande merito
di distinguere l’idem ossia ciò
che rimane sempre identico a se stesso (la sostanza) dall’ipse che è invece il mutabile capace di mantenersi nella propria
mutabilità.
Vorrei
fare due osservazioni: alla mutabilità
di ciò che si mantiene io aggiungerei la insostituibilità. Con
questo termine intendo dire riferirmi alla nozione per cui io sono chi sono e questo "mio essere chi sono"
che poi molto più semplicemente si può dire la mia esistenza, il mio
esser qui, il mio essere nato, il mio vivere e il mio dovere prima o poi morire,
tutto questo fa di me un ente
insostituibile. Io posso essere
sostituita in moltissime delle mie funzioni. Posso essere sostituita, per
esempio, come insegnante o potrei essere sostituita da qualcun altra questa
sera per parlare qui, alla radio, questo è molto chiaro, ma ciò che è
insostituibile è questa mia unicità. E' il fatto che esisto e che nessun
altro può vivere per me al posto mio né può nascere né morire per me. Ecco,
direi che aggiungere al concetto di Ricoeur riguardo all’ipse non solo
la "mutabilità nel mantenersi" ma anche la insostituibilità chiarisce
meglio il concetto in questione e lo unifica in una sintesi di base con questa
categoria della unicità che è
tipicamente arendtiana, e che io trovo perfettamente in sintonia con l’ipse
di Ricoeur.
(...)
Io mi sento (sempre sulla scorta di Hannah Arendt), come un essere unico
che vive la sua vita, magari progettandola e tuttavia non riuscendo
assolutamente a controllarla. E lasciandosi, dunque, dietro di sé una storia di
vita che è appunto qualcosa che, in effetti, io mi lascio dietro. Ossia
qualcosa che io non vedo, qualcosa che trovo, qualcosa che, come dice Hannah
Arendt finisce per risultare. Ecco: questo risultare non è un
effetto di strategia retorica di un testo. Questo risultare dipende dal
nostro "essere qui", dal nostro "essere fragili", dal
nostro non poter controllare la nostra esistenza.
Io
penso che siamo più che un'identità narrativa, un'identità narrabile, che può
essere narrata, un’identità che chiede di essere narrata.
Nella
mia posizione personale essa presentata
come un’identità che chiede di
essere narrata. E' come se io desiderassi che qualcuno mi raccontasse la
mia storia, o, altrimenti, detto in maniera meno egoistica, come se io vivessi
la mia vita avendo come desiderio che la mia vita non venga costituita da un
susseguirsi, per così dire, casuale di eventi, ma che essa abbia in sé
una sorta di trama narrativa e che quindi sia narrabile.
Forse,
per meglio spiegare quello che ho in mente, potrei raccontare una favola
tramandataci da Karen Blixen che ho deciso di inserire all’inizio del mio
libro, la cui trama può chiarire tutti questi concetti che sto dicendo in
maniera, forse, confusa. Narra Karen Blixen che da bambina le raccontavano una
storia che si svolgeva così: "C’era una volta un uomo che viveva presso
uno stagno e una notte sentì un gran rumore, e sentendo questo rumore usci di
casa nel buio. Che cosa era successo? Lo stagno si era aperto rompendosi in un
argine da cui uscivano acqua e pesci, e quest’uomo correndo nel buio e
calpestando il terreno bagnato, (andava un po’ alla cieca nel buio della
notte), passò parecchio tempo a riparare questa falla negli argini dello stagno
andando appunto avanti e indietro. Poi, finalmente, fatto il suo lavoro se ne
andò a dormire. L’indomani mattina, affacciandosi alla finestra, vide che i
suoi passi sul terreno avevano disegnato la figura di una cicogna; a questo
punto Karen Blixen si chiede: quando la mia vita sarà compiuta io vedrò in me
stessa una cicogna o la vedranno altri riflessa in me?" Ecco questa domanda di
Karen Blixen sintetizza in sé quel
desiderio di cui parlavo prima.
Naturalmente
la cicogna, ossia il disegno unitario di ciò che l’uomo ha fatto quella
notte, è ciò che risulta non essere
stato progettato da quest’uomo nella sua opera di riparazione, perché egli non
ha fatto altro che andare avanti e indietro alla cieca, nel buio, e così è,
effettivamente, la vita: la vita non viene progettata di modo che ogni nostro
passo, ogni nostra scelta, ogni nostra azione faccia parte di un disegno
unitario. E tuttavia questo desiderio che, appunto, la vita non sia un
susseguirsi di avvenimenti casuali e di scelte casuali, che l’insieme degli
accidenti e delle nostre scelte volontarie producano un disegno che assomiglia
alla "cicogna" di Karen Blixen, credo che faccia parte dell’animo
umano nella sua dinamicità. Perlomeno è un desiderio riconosciuto sia da Hannah
Arendt che da Karen Blixen, che non per niente è stata una grande narratrice
che ci ha regalato in ogni racconto questi accenni delle "possibili
cicogne" presenti in ciascuno di noi.
Aristotele
scrisse che dell’uomo, di che cos’è l’uomo, si può
sviluppare una scienza, ossia un discorso filosofico. Tanto è vero che, una
volta chiestoci "cos’è l’uomo" possiamo rispondere che esso è un animale
razionale e perciò politico, per stare con Aristotele. Su
"chi è Socrate", dice Aristotele, al contrario, non c’è la
possibilità di costruire una scienza. Non si può fare alcun discorso che
goda di credibilità scientifica, di verità: sarebbe un discorso non
appartenente all’ambito della filosofia. Questo è un esempio noto ma tutta la
filosofia possiede questo tipo di struttura. Ossia la filosofia si occupa
del "che cosa" (il problema delle definizioni fondamentali) e
possiamo chiamare questo "che cosa" l’universale:
"che cos’è" l’uomo, "che cos’è" il soggetto e così via. Si
può anche domandare: "che cos’è il mondo?", ma, per quanto
riguarda gli uomini, la filosofia definisce il che cosa del genere umano
in universale, e ritiene la singolarità, l’unicità, questo nostro esistere
fatto così e non altrimenti, che in fondo dovrebbe interessarci
molto, al di fuori del dominio del suo discorso e dei suoi interessi.
Questa espulsione non è stata una semplice espulsione ma ha avuto delle conseguenze
abbastanza gravi. L’unicità, ossia il fatto che ciascuno di noi sia un
unico esistente così com’è, è diventato un fatto superfluo. Si scrive
la storia dell’uomo, si elaborano le scienze sull’uomo, ma su di me, su di te,
sull’unicità, su ciò che siamo, di questo non esiste la possibilità di una
scienza, non c’è discorso. Tutto questo è il superfluo. Ebbene la
letteratura, la narrazione, la narrativa, fa e ha sempre fatto esattamente il
contrario. Non penso solo a Karen Blixen ma possiamo pensare anche ad Omero,
per esempio. Il narrare storia significa inserire qualcosa e qualcuno in
un discorso che è anche memoria. In questo risiede l’unicità
dell’esistenza. E questo va sottolineato pur non avendo un approccio filosofico
direttamente narrativo, come nel mio caso (perché io purtroppo non sono
una narratrice e penso che questo si capisca subito).
Nessuno
di noi è un puro "chi" senza un suo "che cosa". Voglio dire: è vero che il mio chi
è insostituibile, ma la mia esistenza non è una specie di filo senza qualità:
io sono una donna con delle qualità, e queste mie qualità sono appunto le mie
identità plurali, le mie identità di appartenenza che mi riguardano e che
ciascuna o ciascuno di noi ha. Quindi, se la narrazione è storia di vita, è storia di vita che si riferisce all’identità
irripetibile di quella vita ossia alla sua unicità, e che nel frattempo
narra anche di queste appartenenze. Se restiamo nel campo della letteratura,
ebbene: qualsiasi grande romanzo è così strutturato intorno alle identità dei
suoi protagonisti. Pensiamo ai grandi romanzi di formazione; in fondo cosa sono
essi se non il ritratto di una o più società, ovvero il ritratto di identità
precise e storicamente fondate. (...)
L’unico,
l’unica, o colui o colei che nasce (senza averlo voluto, senza averlo deciso)
in un luogo, in un tempo, si ritrova immesso o immessa,
immediatamente, in una storia, in un ambiente che influenzano ciò che ciascuno
o ciascuna di noi è, attraverso questo carattere di condizionamento della
contingenza (ovvero tutto ciò che accoglie l’unicità e che la accompagna
durante tutta la vita). Quindi io non vedo come queste categorie siano in
contraddizione tra loro, appunto perché non bisogna pensare all’identità come
unicità, non bisogna pensarla come qualche cosa che possa essere astratta dalla
vita reale che è sempre in un tempo e in un luogo. L’unicità non è una sorta di
destino inesorabile (…). E tuttavia l’identità intesa come unicità è fortemente
condizionata dal tempo e dal luogo e questa è la vita, e quindi le infinite
appartenenze segnano l’identità unica
e non potrebbero non farlo
ASCOLTATRICE:
- Io volevo porre un attimo l’attenzione su diciamo l’aspetto psicologico della
questione, perché mi ha colpito molto il fatto che la signora Cavarero
sottolineasse come il problema dell’identità sia direttamente collegato con il
problema della relazione che io ho con l’altro. Quindi mi chiedevo: nel
mondo attuale, dove ci sono pochissimi spazi per costruire relazioni autentiche
e dove anche i tempi vivono di accelerazioni molto forti e dove mancano anche i
luoghi, perché appunto i tempi, i luoghi, le relazioni sono abbastanza
precarie, ebbene, in tutto questo, come è possibile che poi l’altro si possa
formare anche solo un riflesso, un’immagine della nostra persona più vera, più
autentica. Ecco volevo sottolineare questo aspetto che mi sembra anche pieno di
drammaticità, perché poi è anche connesso al problema della solitudine e
ad altri problemi che sono propri di questa epoca in cui viviamo.
CAVARERO:
- E’ una domanda molto bella e mi dà modo di dire una cosa che mi sta molto a
cuore. Naturalmente il "chi sei", la domanda riguardante la relazione
di questo chi con l’altro chi, (chi sei tu, chi sono io) non è
una qualsiasi relazione con qualsiasi cosa ossia non è una relazione di tipo
semplicemente narrativo. E il riconoscimento dell’altro in quanto qualcun altro
che è appunto uno e non un "qualsiasi", non è semplicemente
tutto ciò che si dà nella vita quotidiana. Ci sono però scene di vita molto
particolari che ognuno di noi ha vissuto, se non è proprio uno sventurato, dove
tutto questo avviene normalmente. Sono scene di vita che, appunto, ognuno di
noi conosce bene e che ognuna di noi conosce altrettanto bene. Penso, ad
esempio, alla scena dell’amicizia. L’amicizia è quasi sempre, soprattutto
l'amicizia fra donne, uno scenario di tipo molto narrativo. L’amica è
colei che sa chi io sono, l’amica è colei a cui io potrei raccontare la
sua storia anche se non lo faccio normalmente. Lei sa che io potrei raccontarLe
la sua storia. L’amica è diversa dalla conoscente, perché la conoscente è una
persona che posso incontrare, che sicuramente ha una storia di vita unica, ma
io non gliela saprei raccontare in prima persona. Ma alle mie amiche sì che
potrei raccontare loro la loro storia, e così è l’amore. (...)
La
relazione presa sul serio (ossia la relazione come costitutiva dell’identità
dell’altra e dell’altro) è una relazione che crea catene e crea catene di
riconoscimento.
Sempre
citando la mia amatissima Hannah Arendt, lei stessa dice che la società di
massa è un paravento, anzi un peso schiacciante, un peso incredibile che tenta
di rendere impossibile l’espressione dell’unicità.
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