lunedì 9 settembre 2013

Conversando con Adriana Cavarero

STEFANO CATUCCI: - Buonasera. Abbiamo qui in studio Adriana Cavarero, che insegna all’Università Statale di Verona e con la quale parleremo del problema dell' identità.
La conversazione di questa sera con Adriana Cavarero, all’insegna del "c’era una volta...". Dico questo perché credo che con Adriana Cavarero, autrice tra l’altro di un libro che è intitolato Tu che mi guardi, tu che mi racconti; Filosofia della narrazione uscito l’anno scorso per Feltrinelli, quando si discuta di identità, si vada subito a parlare di qualcosa che ha a che fare con la dimensione del racconto, con la narrazione, con la nozione di narratività. Intanto Le diamo il nostro buonasera, e benvenuta a questa puntata di "Questioni di filosofia". Perchè la questione dell’identità lei la lega alla questione della narrazione? Che cosa c’entra il racconto con il gioco della nostra identità individuale, personale, di soggetti?
ADRIANA CAVARERO: - Potrei citare Karen Blixen (la scrittrice danese che pubblicò quasi tutte le sue opere con lo pseudonimo di Isaac Dynesen) che in un bellissimo racconto intitolato Il secondo racconto del cardinale affronta il problema del rapporto tra narratività ed identità, descrivendo la seguente situazione: c’è una signora che chiede al cardinale: "Ma tu chi sei?", e a questa domanda "chi sei?" il cardinale risponde: "Risponderò con una regola classica: racconterò una storia". Questo tipo di domande richiedono l’identificazione di una persona, l’individuazione di essa colta in tutta la sua irripetibilità, ossia nella irripetibile esistenza che ciascuno di noi ha, e c'è una sola domanda capace di far riemergere questa esistenza in tutta la sua irripetibilità: "Chi sei?" Perché se io chiedo: "cosa sei?" ebbene, allora posso rispondere accennando a una mia qualità, al mestiere che svolgo, a una mia appartenenza culturale, alla mia natura biologica, la mia specie di appartenenza... ma il "chi sei?" ha una sola risposta intesa come risposta verbale che può rendere il suo contenuto dotato di senso. Risposta che si dà nel discorso e che è appunto la narrazione, il raccontare una storia. In questo caso è ovviamente la storia di una vita.
(…) La mia posizione, che poi è la posizione tramandataci da Hannah Arendt, non focalizza tanto il problema dell’identità considerandola come una sostanza, ma pone altresì attenzione sul problema dell’identità impostata a partire dal fatto che ciascuno e ciascuna di noi, vivendo e agendo, come dice Hannah Arendt, mostri concretamente chi è, lasciandosi dietro una storia di vita. La differenza sostanziale tra queste due impostazioni che ho appena elencato, direi che stia proprio questa: intendere l’identità come sostanza significa legare l’identità a una sorta di a priori trascendentale, mentre l’identità che corrisponde a una "storia di vita" è, letteralmente, ciò che ci si lascia dietro. Insomma ciò che non si controlla, tutto quello che, in un certo senso, non si progetta e che si lascia dietro in quanto storia di vita, e che può avere un’espressione verbale soltanto nel racconto di questa storia di vita. Nella mia particolare posizione su queste tematiche io, ovviamente, condivido in pieno il lascito teoretico di Hannah Arendt, per il quale questa storia di vita non si dà mai nella forma dell'autobiografia, ossia nella sua forma narcisistica (nella quale io posso dire chi sono solo raccontando la mia storia), ma si dà nella forma della biografia, nella quale  è qualcun altro a raccontare la mia storia. E questo significa che l’identità così intesa non solo non è sostanziale ma non è neanche isolata, monolitica, solitaria, solipsistica. E' un’identità che possiamo definire relazionale, che si dà solo nella "relazione con l’altro/con l’altra". Lei citava prima questo titolo curioso del mio ultimo libro che è appunto Tu che mi guardi, tu che mi racconti e questo titolo curioso tenta proprio di alludere a questi due principi fondamentali per il processo di identificazione che  l’altro che guarda, o  l’altro che racconta: colui o colei, che può esplicitare la mia identità, può offrirmi, donarmi la mia identità nella forma di una storia di vita raccontata da lui o da lei. Insomma: il titolo avrebbe potuto anche essere Raccontami la mia storia, che è una sorta di paradosso, se volete. Certamente, se si pensa ad alcune scene come, per esempio, quelle desumibili di un’amicizia, o tante scene d'amore non è poi così un grande paradosso.
CATUCCI: (…) Discutiamo un contributo di Paul Ricoeur: 
Sostiene Ricoeur che la questione dell’identità assuma una forma problematica perché noi disponiamo di due modelli di identità.
Nel suo lavoro Ricoeur ha tentato di fissare due sensi di identità  parlando da una parte di identità/idem (medesimezza) per usare una terminologia latina, e l’altra di identità/ipse (ipseità). Ciò che maggiormente interessa a Ricoeur è l’identità/ipse.
Ma che cosa ci intende con identità/idem? è l’identità di qualcosa che resta, mentre le apparenze o, come si suol dire, gli accidenti cambiano, ed è il modello filosofico che fin dall’antichità è stato chiamato dell'identià sostanziale. L’identità/ipse della quale, invece, ora parla Ricoeur, non implica immutabilità, staticità, ma, al contrario, si può arrivare all’esempio estremo in cui questo tipo d’identità si viene a porsi nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri del soggetto. L’esempio più notevole di questa identità/ipse (l’identità di me stesso, in quanto unico), è quello del mantenimento di una promessa.
La promessa è un esempio notevole perché non abbiamo a che fare solo con un soggetto che promette come se fosse una identità sostanziale. Al contrario: io mantengo la mia promessa nonostante tutto quello che mi succede, e che succede nel mondo circostante, a partire dal momento in cui la pronuncio, e nonostante tutti i miei cambiamenti d’umore. E questa è un’identità che, secondo Ricoeur, si può chiamare di mantenimento più che di sussistenza: Io sono e mi conservo come lo stesso Io, nonostante non sia più identico, nonostante io sia cambiato - nel - tempo.
Dunque esistono due rapporti di continuità del soggetto con il tempo. Uno è un rapporto in qualche modo di immutabilità, all'interno della sostanza. L’altro è invece quello che Ricoeur definisce di identità narrativa, volendo dire con ciò che l’identità di un soggetto capace di mantenere una promessa è strutturata come l’identità del personaggio di una storia, di una narrazione.
CATUCCI: - Ecco; Adriana Cavarero, a quello che diceva Paul Ricoeur, attraverso questo esempio della "promessa", lei vorrebbe aggiungere qualcosa?
CAVARERO: - Sì. La distinzione di Ricoeur è chiarissima e ha appunto questo grande merito di distinguere l’idem ossia ciò che rimane sempre identico a se stesso (la sostanza) dall’ipse che è invece il mutabile capace di mantenersi nella propria mutabilità.
Vorrei fare due osservazioni: alla mutabilità di ciò che si mantiene io aggiungerei la insostituibilità. Con questo termine intendo dire riferirmi alla nozione per cui io sono chi sono e questo "mio essere chi sono" che poi molto più semplicemente si può dire la mia esistenza, il mio esser qui, il mio essere nato, il mio vivere e il mio dovere prima o poi morire, tutto questo fa di me un ente insostituibile. Io posso essere sostituita in moltissime delle mie funzioni. Posso essere sostituita, per esempio, come insegnante o potrei essere sostituita da qualcun altra questa sera per parlare qui, alla radio, questo è molto chiaro, ma ciò che è insostituibile è questa mia unicità. E' il fatto che esisto e che nessun altro può vivere per me al posto mio né può nascere né morire per me. Ecco, direi che aggiungere al concetto di Ricoeur riguardo all’ipse non solo la "mutabilità nel mantenersi" ma anche la insostituibilità chiarisce meglio il concetto in questione e lo unifica in una sintesi di base con questa categoria della unicità che è tipicamente arendtiana, e che io trovo perfettamente in sintonia con l’ipse di Ricoeur.
(...) Io mi sento (sempre sulla scorta di Hannah Arendt), come un essere unico che vive la sua vita, magari progettandola e tuttavia non riuscendo assolutamente a controllarla. E lasciandosi, dunque, dietro di sé una storia di vita che è appunto qualcosa che, in effetti, io mi lascio dietro. Ossia qualcosa che io non vedo, qualcosa che trovo, qualcosa che, come dice Hannah Arendt finisce per risultare. Ecco: questo risultare non è un effetto di strategia retorica di un testo. Questo risultare dipende dal nostro "essere qui", dal nostro "essere fragili", dal nostro non poter controllare la nostra esistenza.
Io penso che siamo più che un'identità narrativa, un'identità narrabile, che può essere narrata, un’identità che chiede di essere narrata.
Nella mia posizione personale essa  presentata come un’identità che chiede di essere narrata. E' come se io desiderassi che qualcuno mi raccontasse la mia storia, o, altrimenti, detto in maniera meno egoistica, come se io vivessi la mia vita avendo come desiderio che la mia vita non venga costituita da un susseguirsi, per così dire, casuale di eventi, ma che essa abbia in sé una sorta di trama narrativa e che quindi sia narrabile.
Forse, per meglio spiegare quello che ho in mente, potrei raccontare una favola tramandataci da Karen Blixen che ho deciso di inserire all’inizio del mio libro, la cui trama può chiarire tutti questi concetti che sto dicendo in maniera, forse, confusa. Narra Karen Blixen che da bambina le raccontavano una storia che si svolgeva così: "C’era una volta un uomo che viveva presso uno stagno e una notte sentì un gran rumore, e sentendo questo rumore usci di casa nel buio. Che cosa era successo? Lo stagno si era aperto rompendosi in un argine da cui uscivano acqua e pesci, e quest’uomo correndo nel buio e calpestando il terreno bagnato, (andava un po’ alla cieca nel buio della notte), passò parecchio tempo a riparare questa falla negli argini dello stagno andando appunto avanti e indietro. Poi, finalmente, fatto il suo lavoro se ne andò a dormire. L’indomani mattina, affacciandosi alla finestra, vide che i suoi passi sul terreno avevano disegnato la figura di una cicogna; a questo punto Karen Blixen si chiede: quando la mia vita sarà compiuta io vedrò in me stessa una cicogna o la vedranno altri riflessa in me?" Ecco questa domanda di Karen Blixen sintetizza in sé  quel desiderio di cui parlavo prima.
Naturalmente la cicogna, ossia il disegno unitario di ciò che l’uomo ha fatto quella notte,  è ciò che risulta non essere stato progettato da quest’uomo nella sua opera di riparazione, perché egli non ha fatto altro che andare avanti e indietro alla cieca, nel buio, e così è, effettivamente, la vita: la vita non viene progettata di modo che ogni nostro passo, ogni nostra scelta, ogni nostra azione faccia parte di un disegno unitario. E tuttavia questo desiderio che, appunto, la vita non sia un susseguirsi di avvenimenti casuali e di scelte casuali, che l’insieme degli accidenti e delle nostre scelte volontarie producano un disegno che assomiglia alla "cicogna" di Karen Blixen, credo che faccia parte dell’animo umano nella sua dinamicità. Perlomeno è un desiderio riconosciuto sia da Hannah Arendt che da Karen Blixen, che non per niente è stata una grande narratrice che ci ha regalato in ogni racconto questi accenni delle "possibili cicogne" presenti in ciascuno di noi.
Aristotele  scrisse che dell’uomo, di che cos’è l’uomo, si può sviluppare una scienza, ossia un discorso filosofico. Tanto è vero che, una volta chiestoci "cos’è l’uomo" possiamo rispondere che esso è un animale razionale e perciò politico, per stare con Aristotele. Su "chi è Socrate", dice Aristotele, al contrario, non c’è la possibilità di costruire una scienza. Non si può fare alcun discorso che goda di credibilità scientifica, di verità: sarebbe un discorso non appartenente all’ambito della filosofia. Questo è un esempio noto ma tutta la filosofia possiede questo tipo di struttura. Ossia la filosofia si occupa del "che cosa" (il problema delle definizioni fondamentali) e possiamo chiamare questo "che cosa" l’universale: "che cos’è" l’uomo, "che cos’è" il soggetto e così via. Si può anche domandare: "che cos’è il mondo?", ma, per quanto riguarda gli uomini, la filosofia definisce il che cosa del genere umano in universale, e ritiene la singolarità, l’unicità, questo nostro esistere fatto così e non altrimenti, che in fondo dovrebbe interessarci molto, al di fuori del dominio del suo discorso e dei suoi interessi. Questa espulsione non è stata una semplice espulsione ma ha avuto delle conseguenze abbastanza gravi. L’unicità, ossia il fatto che ciascuno di noi sia un unico esistente così com’è, è diventato un fatto superfluo. Si scrive la storia dell’uomo, si elaborano le scienze sull’uomo, ma su di me, su di te, sull’unicità, su ciò che siamo, di questo non esiste la possibilità di una scienza, non c’è discorso. Tutto questo è il superfluo. Ebbene la letteratura, la narrazione, la narrativa, fa e ha sempre fatto esattamente il contrario. Non penso solo a Karen Blixen ma possiamo pensare anche ad Omero, per esempio. Il narrare storia significa inserire qualcosa e qualcuno in un discorso che è anche memoria. In questo risiede l’unicità dell’esistenza. E questo va sottolineato pur non avendo un approccio filosofico direttamente narrativo, come nel mio caso (perché io purtroppo non sono una narratrice e penso che questo si capisca subito).
Nessuno di noi è un puro "chi" senza un suo "che cosa". Voglio dire: è vero che il mio chi è insostituibile, ma la mia esistenza non è una specie di filo senza qualità: io sono una donna con delle qualità, e queste mie qualità sono appunto le mie identità plurali, le mie identità di appartenenza che mi riguardano e che ciascuna o ciascuno di noi ha. Quindi, se la narrazione è storia di vita,  è storia di vita che si riferisce all’identità irripetibile di quella vita ossia alla sua unicità, e che nel frattempo narra anche di queste appartenenze. Se restiamo nel campo della letteratura, ebbene: qualsiasi grande romanzo è così strutturato intorno alle identità dei suoi protagonisti. Pensiamo ai grandi romanzi di formazione; in fondo cosa sono essi se non il ritratto di una o più società, ovvero il ritratto di identità precise e storicamente fondate. (...)
L’unico, l’unica, o colui o colei che nasce (senza averlo voluto, senza averlo deciso) in un luogo, in un tempo, si ritrova immesso o immessa, immediatamente, in una storia, in un ambiente che influenzano ciò che ciascuno o ciascuna di noi è, attraverso questo carattere di condizionamento della contingenza (ovvero tutto ciò che accoglie l’unicità e che la accompagna durante tutta la vita). Quindi io non vedo come queste categorie siano in contraddizione tra loro, appunto perché non bisogna pensare all’identità come unicità, non bisogna pensarla come qualche cosa che possa essere astratta dalla vita reale che è sempre in un tempo e in un luogo. L’unicità non è una sorta di destino inesorabile (…). E tuttavia l’identità intesa come unicità è fortemente condizionata dal tempo e dal luogo e questa è la vita, e quindi le infinite appartenenze segnano l’identità  unica e non potrebbero non farlo
ASCOLTATRICE: - Io volevo porre un attimo l’attenzione su diciamo l’aspetto psicologico della questione, perché mi ha colpito molto il fatto che la signora Cavarero sottolineasse come il problema dell’identità sia direttamente collegato con il problema della relazione che io ho con l’altro. Quindi mi chiedevo: nel mondo attuale, dove ci sono pochissimi spazi per costruire relazioni autentiche e dove anche i tempi vivono di accelerazioni molto forti e dove mancano anche i luoghi, perché appunto i tempi, i luoghi, le relazioni sono abbastanza precarie, ebbene, in tutto questo, come è possibile che poi l’altro si possa formare anche solo un riflesso, un’immagine della nostra persona più vera, più autentica. Ecco volevo sottolineare questo aspetto che mi sembra anche pieno di drammaticità, perché poi è anche connesso al problema della solitudine e ad altri problemi che sono propri di questa epoca in cui viviamo.
CAVARERO: - E’ una domanda molto bella e mi dà modo di dire una cosa che mi sta molto a cuore. Naturalmente il "chi sei", la domanda riguardante la relazione di questo chi con l’altro chi, (chi sei tu, chi sono io) non è una qualsiasi relazione con qualsiasi cosa ossia non è una relazione di tipo semplicemente narrativo. E il riconoscimento dell’altro in quanto qualcun altro che è appunto uno e non un "qualsiasi", non è semplicemente tutto ciò che si dà nella vita quotidiana. Ci sono però scene di vita molto particolari che ognuno di noi ha vissuto, se non è proprio uno sventurato, dove tutto questo avviene normalmente. Sono scene di vita che, appunto, ognuno di noi conosce bene e che ognuna di noi conosce altrettanto bene. Penso, ad esempio, alla scena dell’amicizia. L’amicizia è quasi sempre, soprattutto l'amicizia fra donne, uno scenario di tipo molto narrativo. L’amica è colei che sa chi io sono, l’amica è colei a cui io potrei raccontare la sua storia anche se non lo faccio normalmente. Lei sa che io potrei raccontarLe la sua storia. L’amica è diversa dalla conoscente, perché la conoscente è una persona che posso incontrare, che sicuramente ha una storia di vita unica, ma io non gliela saprei raccontare in prima persona. Ma alle mie amiche sì che potrei raccontare loro la loro storia, e così è l’amore. (...)
La relazione presa sul serio (ossia la relazione come costitutiva dell’identità dell’altra e dell’altro) è una relazione che crea catene e crea catene di riconoscimento.

Sempre citando la mia amatissima Hannah Arendt, lei stessa dice che la società di massa è un paravento, anzi un peso schiacciante, un peso incredibile che tenta di rendere impossibile l’espressione dell’unicità.

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