mercoledì 22 febbraio 2017

Rivolta o rivoluzione? Da Camus a Holloway



Articolo di Cristina Cecchi su MicroMega



La Storia altro non è che lo sforzo disperato degli esseri umani 

di dar corpo al più chiaroveggente dei loro sogni.
Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2016

Cambiare il mondo senza prendere il potere. 
Il significato della rivoluzione oggi, 
John Holloway, Cantieri: Carta/Edizioni Intra Moenia, Roma-Napoli 2004

Primavere arabe, Occupy ovunque, banlieu in fiamme e vittoriosi referendum antiausterity: non passa anno senza che gli ottimisti salutino La rivoluzione è vicina, il Capitale è spacciato. Anno dopo anno, i non immemori sanno: Neppure questo è il tempo della rivoluzione.

Il mondo critico si divide in:
 - chi ancora spera e si adopera per trasformare la speranza in realtà
 - chi caparbiamente lotta per mantenere integra almeno la propria dignità

(I disperati votano Trump e i furbi lavorano in una banca d’affari, ma qui non interessano.)

Nessuna delle due posture è nuova. Ed è bene così, perché l’esperienza consente di evitare l’eterno ritorno dell’errore. Quando il materialismo storico si è materializzato nella storia non conosceva la sconfitta; quando si è fatto rivoluzione e la rivoluzione si è fatta Stato e lo Stato si è fatto di nuovo tirannia, la sconfitta si è impadronita di chi padroni non ne voleva, di chi da allora non ha smesso di dire No soltanto tra sé e sé. A voce e testa alta, ma tra sé e sé.

Celebre l’incipit dell’Uomo in rivolta di Albert Camus (1951):[1] 
«Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». 
La rivolta è una negazione che afferma. È un No che libera da per rendere liberi di. È destruens e construens in un unico movimento. Il No può essere pronunciato silenziosamente oppure ad alta voce; in ogni caso, il primo destinatario di questo messaggio è l’individuo stesso che lo emette. Il No consegue a una subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi propri diritti siano violati. Perciò è negazione e insieme affermazione: 
«Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull'impressione, nell'insorto, di avere “il diritto di…”. Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione».
La rivolta è il moto che nasce dalla ripulsa provata al cospetto di una condizione ritenuta ingiusta e che si sviluppa per opporre ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Fondamentale, per Camus, è precisare che si insorge non solo per rivendicare una condizione migliore per se stessi: la rivolta, benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’umano, è superamento dell’individuo in un bene ormai comune, perché affermazione di un diritto che trascende il singolo; l’insorto agisce, anche a costo della sua stessa vita, in nome di un valore (relativo, ovviamente) che sente di condividere con tutti gli umani. 
La rivolta sottrae l’individuo alla solitudine e all’assurdo, allo straniamento dato dal nonsenso dell’esistenza, e ne fa un essere solidale e partecipe della comunità: la sofferenza individuale diviene peste collettiva. Dunque ci si rivolta non per sé, ma per tutti; prova ne è che 
«la rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima un altro», 
e non solo per empatia, ma soprattutto per la percezione che un diritto ritenuto universale è stato violato. In definitiva, per Camus la rivolta è 
«Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere». Di più: dato che l’umano non è se non in relazione agli altri umani, e dato che «La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta», la rivolta è una qualità distintiva metafisica, dello stesso ordine del cogito cartesiano: «Mi rivolto, dunque siamo».
Ma il pensiero informato alla rivolta non sempre consegue in atti fedeli alla sua primigenia nobiltà: talvolta, «per stanchezza e pazzia», se ne scorda, «in un’ebbrezza di tirannia o di servitù»
«Al principio, l’uomo in rivolta voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e […] eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito.» 
Quando lo spirito di rivolta metafisica entra nella storia e raggiunge il movimento rivoluzionario («la rivoluzione non è altro che il logico sviluppo della rivolta metafisica»), lo spirito rivoluzionario prende la difesa di quella parte dell’uomo che non vuole inchinarsi e tenta di dargli un suo regno nel tempo. Così Camus enuncia la distinzione tra rivolta e rivoluzione: 
«[La rivoluzione] è l’inserzione dell’idea nell’esperienza storica mentre la rivolta è soltanto il moto che porta dall’esperienza individuale all’idea»; 
la rivolta è una protesta oscura che non coinvolge il sistema, mentre la rivoluzione è un tentativo di modellare l’atto sull’idea, di foggiare il mondo entro un’inquadratura teorica. Se però l’umano cede alla supremazia dei mezzi sul fine, la rivoluzione prende le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza
«La rivoluzione, anche e soprattutto quella materialista, non è nient’altro che una crociata metafisica smisurata». 
Con la tecnica della conquista del potere per la realizzazione dei fini ultimi, poi, la rivoluzione diventa impero, una nuova tirannia che si sovrappone all'antica sotto le false insegne della speranza; ma Camus denuncia: non esiste alcuna differenza sostanziale tra la tirannia reazionaria e la tirannia progressista. Terribili e definitive come una pietra tombale sono le parole che spende per la Rivoluzione russa, «la più grande rivoluzione che la storia abbia conosciuta» – parole che gli valsero la rottura con Sartre e l’isolamento in cui restò fino alla morte –: rivoluzione totalitaria, socialismo militare, giacobinismo russo, terrorismo di Stato, rivoluzione tradita, ingiustizia trionfante nella storia. Lenin cercò di attuare l’eguaglianza umana mediante la conquista dei poteri dello Stato, spingendosi ben oltre quella provvisoria dittatura operaia già contraddittoriamente prevista da Marx: «Dal regno della massa, dal concetto di rivoluzione proletaria, si passa dapprima all’idea di una rivoluzione fatta e diretta da agenti professionisti», sicché il proletariato si identifica con i suoi capi, per poi annunciare che non si può prevedere il termine di tale stato provvisorio e che per giunta nessuno s’era mai sognato di promettere che avrebbe avuto fine. Così la rivoluzione è «condannata, per durare, a negare la propria vocazione universale», «vive su princìpi falsi», e il rivoluzionario «non è più Prometeo, è Cesare». Un decimo dell’umanità esercita un’autorità illimitata sugli altri nove decimi; questi perdono la loro personalità e divengono un gregge costretto all’obbedienza dei nuovi signori e padroni, alla servitù delle nuove élite che hanno sostituito le precedenti. Ma quando la rivoluzione diventa schiavitù, la rivolta è morta. La più rigorosa formulazione teorica di Camus dell’idea di rivoluzione si conclude quindi nell’amarezza: «Teoricamente, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche atto ad affermare più libertà e più giustizia nel mondo», ma empiricamente questa utopia assoluta si è sempre autodistrutta, muovendosi secondo le leggi del potere e del dominio e dunque non distinguendosi in alcun modo dal potere e dal dominio che ambiva a cancellare. 
«La parola rivoluzione serba il senso che ha in astronomia. È un movimento che chiude l’orbita, che passa da un governo all’altro dopo una traslazione completa. […] Ma per le stesse ragioni, si può dire che non c’è ancora stata rivoluzione definitiva. Il movimento che sembra concludere l’orbita già ne inizia un’altra all’atto stesso della costituzione di un nuovo governo. Gli anarchici, Varlet in testa, hanno visto bene che governo e rivoluzione sono propriamente incompatibili.» 
Nessun governo può essere rivoluzionario: è una contraddizione in termini. Dato che non si è ancora trovata una via a una rivoluzione che non diventi la negazione di se stessa, una via alla rivoluzione definitiva, e che tutte le occasioni storiche in tal senso sono andate sprecate, la conclusione è una: 
«Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta. Saper dire no, sforzarsi, ciascuno nel posto che occupa, di creare quei valori vitali senza i quali non potrà esserci alcun rinnovamento, conservare ciò che vale dell’essere, preparare quanto merita di esistere […] ecco alcune buone ragioni di rinnovamento e di speranza». 
Una postura metafisica e politica valida a metà xx secolo tanto quanto a inizio xxi.


Il filosofo radicale John Holloway, in Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi (2002, 20102),[2] raccoglie il testimone di Camus e prova a portarlo oltre. Il grido di angoscia del singolo trova la sua catarsi in un coro di dissenso collettivo. Dalla percezione dell’ingiustizia, del divario tra ciò che è e ciò che potrebbe e anzi dovrebbe essere, nasce la rivolta. Il «Mi rivolto, dunque siamo» di Camus è per Holloway un «noi gridiamo», dal quale prende le mosse la lotta per la trasformazione sociale. Questa, tuttavia, non può passare per le armi o per la fondazione di un partito (più o meno d’avanguardia) e la vittoria elettorale: la militarizzazione o la burocratizzazione del sogno rivoluzionario tradiscono il movimento da cui esso ha origine e rendono il rivoluzionario identico a tutti gli altri potenti della storia, come l’Unione Sovietica insegna. Sin qui, verrebbe da dire, Holloway è camusiano. 
Preso atto del fallimento storico della rivoluzione, tuttavia, Holloway rifiuta di considerare la ritirata nella sfera della dignità personale una valida opzione in attesa di tempi migliori: non c’è rifugio in un mondo ingiusto. Il grido che si rivolge a se stesso rimane disperazione o si riduce a un frustrante brontolio cinico. Bisogna imparare la speranza, trasformare la rabbia e il rifiuto dell’ingiustizia in lotta, ma cessare l’identificazione tra rivoluzione e conquista del controllo dello Stato. La riflessione di Holloway si concentra dunque sulla questione del potere.

Ogni rivoluzione che abbia teorizzato o sperimentato la conquista del potere statale ha fallito: non si può cambiare un sistema servendosi dei suoi stessi mezzi, né si può prendere il potere per abolirlo. La lotta contro il potere non può in alcun momento coincidere con la lotta per il potere, in quanto la presa del potere da parte di alcuni ne comporta la cessione da parte di altri, e tale alienazione della sovranità inevitabilmente conduce alla rovina anche il migliore dei tentativi. 
Questa è quindi la sfida rivoluzionaria del xxi secolo: cambiare il mondo senza prendere il potere. Come? Holloway distingue due ordini di potere: il poter fare e il potere su

Il poter fare è creatività, ovvero facoltà, capacità, possibilità di fare, un tratto distintivo e fondante dell’umano. Ma non esiste un fare del tutto individuale; esso è intrinsecamente sociale, plurale, collettivo, corale, comune, perché tutto ciò che l’individuo fa è parte di un flusso sociale del fare in cui condizione preliminare del fare di uno è il fare o l’aver fatto degli altri, senza che si possa dire dove finisce uno e inizia l’altro, tanto sono intrecciati. Il fare, dunque, costituisce il passaggio da io a noi, e il modo in cui esso è organizzato determina il modo della socialità. 

È quando il flusso sociale del fare si frattura che il poter fare diventa potere su (Negri direbbe forse che il potere costituente diventa potere costituito): alcuni si appropriano del diritto di decidere del poter fare altrui, cioè lo alienano; allora il noi cessa di essere collettività e diventa un io sugli altri, i quali sono espropriati del loro originario poter fare, privati della capacità di realizzare i loro progetti perché impegnati a realizzare quelli altrui – vale a dire, sono disumanizzati. Per la maggior parte degli umani dunque il potere si converte nel suo opposto: non è più la capacità di fare, bensì l’incapacità di fare, l’essere dominati. 
«L’esistenza del poter-fare come potere-su significa che l’immensa maggioranza di coloro-che-fanno sono trasformati in oggetti del fare, la loro attività si trasforma in passività, la loro soggettività in oggettività.» 
Se il poter fare è unificazione tra gli individui che costituiscono il corpo sociale, l’esercizio del potere su è invece separazione. Così la storia diventa la storia dei potenti, una storia di antagonismo, dominazione e soprattutto furto: la dominazione è il furto di ciò che viene fatto a colui che fa, il furto del poter fare, l’alienazione di ciò che dovrebbe essere inalienabile. La rivoluzione, per converso, è liberare il poter fare dal potere su; non la lotta di un potere su contro un altro potere su, che genererebbe solo altra alienazione e dominazione, ma la lotta del poter fare contro il potere su, per riaffermare il flusso sociale del fare, contro la sua frammentazione e negazione. 
«La lotta per liberare il poter-fare non è la lotta per costruire un contro-potere, ma piuttosto un antipotere, qualcosa che sia radicalmente diverso dal potere-su. Le concezioni della rivoluzione che si concentrano sulla presa del potere di solito sono incentrate sulla nozione di contro-potere. La strategia consiste nel costruire un contro-potere, un potere che possa opporsi al potere dominante. Spesso il movimento rivoluzionario è stato costruito come una immagine speculare del potere, esercito contro esercito, partito contro partito, con il risultato che il potere si riproduce all’interno della stessa rivoluzione. L’anti-potere dunque non è contro-potere ma qualcosa di molto più radicale: è la dissoluzione del potere-su, l’emancipazione del poter-fare.» 
Questa è la conclusione di Holloway. Il quale, tuttavia, non spiega come raggiungere l’obiettivo così lucidamente individuato; proverei dunque a ricostruire il modus operandi a partire dagli spunti che il filosofo dissemina qua e là nella sua opera. La società trasformata è una società nella quale le relazioni di potere sono dissolte e la comunità creata dal flusso sociale del fare torna a esistere. Del fatto che il potere su non è un dato di realtà, che ci si può riappropriare del poter fare, però, bisogna prendere coscienza; ma come la lotta non può essere condotta da alcuni per il bene di tutti, così, per non ricadere nell’errore, la presa di coscienza non può essere il risultato di una pratica politica monologica, con trasmissione unidirezionale dall’avanguardia illuminata alla massa: il soggetto critico deve autoemanciparsi, la presa di coscienza deve essere in verità un processo di autocoscienza. Questo sarebbe il primo passo verso la liberazione del poter fare; in seconda battuta verrebbe la forma più semplice e meno spettacolare di lotta: l’insubordinazione, vale a dire una resistenza attiva, il rigetto dell’alienazione nella pratica quotidiana, l’opposizione concreta al furto della dignità. Tale insubordinazione inarticolata, senza volto e senza voce, sarebbe la materialità dell’antipotere, la base della speranza, l’inizio della rottura del circolo della sottomissione e della dominazione. La quale poi, quando si costituisca come comunità in lotta, visibile e articolata, diventerebbe rivoluzione. Solo così essa potrebbe non tramutarsi nel suo opposto: se fosse cooperazione di una comunità in lotta nella sua totalità, senza patrizi e plebei della ribellione; vale a dire, se mezzi e fini coincidessero.

Da questa prospettiva, la dicotomia tra rivolta e rivoluzione appare sfumata. È vero, Camus sostiene che non sia il tempo della rivoluzione e opta per la rivolta, intesa nel senso – tutt’altro che nichilistico – di movimento dell’essere a partire dal quale riprendere slancio e rinascere con una rivoluzione finalmente fedele alla rivolta: «invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo». Holloway, invece, sostiene con determinazione che custodire «una dimora essenziale e non alienata nei nostri cuori» non sia una reazione sufficiente all’alienazione, che non si debba rinunciare a lottare qui e ora, insieme, per la ricostituzione dell’umanità. Ma per entrambi – senza dottrine, regole o ricette, senza ideologie e ortodossie, senza cedere alla rassegnazione e senza incorrere in facili ottimismi –, dopotutto, l’unica speranza è costruire comunità parziali, capaci di separarsi con audacia dal pensiero unico e ricreare spazi forse solo temporaneamente liberati, isole di resistenza, piccole antisocietà fraterne e ribelli. La differenza tra le due prospettive sta nel punto in cui si situa, sull'asse cronologico, l’attesa della trasformazione, e la ricaduta che questo ha sul modo in cui si vive la propria esistenza politica nell'oggi. In ogni caso, a me pare che la dialettica tra queste posture sia attualmente il più alto punto di osservazione da cui scrutare il presente, perché genera i poli tra i quali ciascuno di noi si trova a muoversi.

Come ho detto da principio, non intendo occuparmi qui di chi ripiega sui nuovi fascismi, né della nutrita schiatta di coloro che credono di avvantaggiarsi votando neoliberismo. C’è invece chi si colloca al polo estremo della resistenza individuale, facendone una pratica quotidiana di rifiuto: vive con il minor numero possibile di lampadine accese e il riscaldamento basso, per non consumare, per non dare il proprio contributo alla devastazione del pianeta, e fa scrupolosamente la raccolta differenziata mentre ripete a se stesso il tempo del socialismo non è adesso, e poi è meglio averlo come orizzonte di attesa, come aldilà laico a cui tendere, un domani che fornisce un’illusione di senso all’oggi, sì, è meglio se non si realizza – e intanto si indigna, anzi, si rivolta, ma a denti stretti, tra sé e sé; non è una posizione neutrale, anzi, è molto intransigente, ma di un’intransigenza circolare e autotelica che rischia di sfociare in senso d’impotenza e rassegnazione. Al polo opposto c’è chi prova a trasformare l’insubordinazione inarticolata in lotta collettiva: l’ultimo tentativo in tal senso, nello scacchiere internazionale, mi sembra sia quello attuato da Varoufakis con la creazione del movimento Diem25. Certo i tempi sono molto cambiati da quando scriveva Camus, e verrebbe da dire che, se non era allora il tempo della rivoluzione, men che meno lo è adesso; ma, si sa, Camus è «filosofo del futuro», quindi non c’è da meravigliarsi che abbia anticipato i tempi. All’ormai conclamata e pluridecennale crisi dell’identità politica antagonista e all’assenza di un solido referente organizzato nella sinistra internazionale e nostrana – persino Livorno adesso ha un sindaco pentastellato – si somma ora la disaffezione dei cittadini verso i partiti di centrosinistra e centrodestra, proni alle politiche imposte dall’Unione monetaria europea, e viceversa la speranza riposta in forze estreme ancorate alla sovranità nazionale, con il paradosso che movimenti xenofobi si ritrovano a essere considerati i paladini della democrazia. Varoufakis, sorpassando a sinistra i populismi, un anno fa ha creato «un’internazionale progressista contro l’internazionale neoliberista», un movimento paneuropeo che attualmente risulta lo spettro più radicale che si aggiri per l’Europa. Contro i Le Pen come contro le Goldman Sachs, Diem25 prende atto della perdita di fiducia nei confronti dell’establishment e dello spettacolare fallimento della sinistra nell'interpretare il disagio sociale – 
«La sinistra non è, da sola, in condizioni di offrire le infrastrutture per dare una risposta con cui combattere le cause di questa crisi» –[3] e rimette al centro la parola «alternativa». «Non vogliamo essere un ennesimo partito di sinistra», «abbiamo ben presente che se diventassimo un gruppo d’élite o di ceto polito, ci suicideremmo: vogliamo andare nella direzione opposta, cioè parlare alle persone, anche a quelle che non hanno mai fatto politica, sulla base delle nostre proposte e di quelle che emergeranno nel lavoro comune»
Varoufakis sembra far proprie le lezioni duramente impartite dalla storia (anche a lui medesimo) e cerca di evitare di costituirsi come contropotere anziché antipotere, come entità che mira alla conquista del potere su anziché emancipare il poter fare. E infatti alla domanda «Diem si presenterà alle elezioni?» risponde: «Intanto mi lasci dire che siamo un movimento europeo vero, non una federazione di partiti nazionali: ogni decisione viene presa dai nostri iscritti (al momento circa 40 mila) attraverso una consultazione on line a cui si vota ugualmente in tutti i Paesi. […] Per quanto riguarda gli appuntamenti elettorali, a noi interessano i contenuti, le proposte, le idee per affrontare la crisi. Quindi valuteremo in ogni Paese se ci saranno interlocutori che facciano proprie le nostre proposte o se si renderà necessario un nostro impegno diretto». Al momento non è chiaro che cosa intenda con «impegno diretto», ma sembra di capire che Diem25 si proponga più di influenzare le istituzioni che di diventarne una; per fare qualche esempio, simpatizza con Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, mentre in Spagna conta tra i suoi iscritti Ada Colau, sindaco di Barcellona – il che instaura una connessione con la linea che da Podemos, braccio politico erede degli Indignados, risale fino agli Occupy (pronipoti di quei No Global che in un’altra era dicevano che la globalizzazione è il male), cioè ai movimenti che negli ultimi anni, dagli Stati Uniti fino a Istanbul, più hanno cercato di fare resistenza attiva allo statu quo, di rompere il circolo della dominazione e costituirsi come articolata comunità in lotta. Movimenti che non hanno ottenuto grandi risultati, va detto; ed è questo il secondo rischio – oltre a quello di volere infine prendere il potere, di cedere alla supremazia dei mezzi sul fine, quindi di trasformarsi da sinistra eretica in sinistra burocratica come i suoi predecessori – che vedo per Diem25: il rischio di rimanere rivolta serpeggiante che non riesce davvero a operare la trasformazione del reale e poi si spegne. Lo strumento della decisione collettiva adottato da Diem25, comunque, muove risolutamente verso la democrazia diretta, ovvero la forma politica che più si avvicina alla rigenerazione del flusso sociale del fare, in cui nessuno si vede espropriato del suo potere; dice ancora Varoufakis: 
«Ad esempio, sul referendum costituzionale italiano per prendere una posizione abbiamo ascoltato con attenzione i pareri dei nostri iscritti italiani, che conoscevano meglio la questione, ma poi abbiamo votato ugualmente tutti, dalla Spagna alla Croazia». 
Già, il referendum: il momento in cui quella parte di cittadinanza italiana che non si riconosce in alcuna delle proposte politiche esistenti – e le cui energie Varoufakis si propone di catalizzare – ha reclamato la propria voce. Il referendum in Italia è attualmente l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, ed è uno strumento che consente solo di dire No, di opporre un rifiuto, anche se è un rifiuto che afferma, che apre a un’alternativa; tornano in mente le parole di Camus citate all’inizio: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì». In Italia sono stati molti, in anni recenti, i movimenti che hanno detto No: a partire dal No Tav, da Nord a Sud si sono moltiplicati i No Tap, No Tem, No Triv, No Muos, No Dal Molin, No Canal ecc.; movimenti radicati nel territorio e animati da persone che hanno scelto di non subire decisioni ritenute ingiuste, di opporre il proprio rifiuto e coordinarsi nella lotta, situandosi in un certo senso a un punto intermedio tra rivolta e rivoluzione. Il destino dei No è stato segnato il 1° maggio 2015, quando dopo mesi di parlamentare sulla manifestazione No Expo di Milano – No Expo significava antipotere rispetto al capitalismo internazionale, incarnato dall’allora commissario Beppe Sala – il movimento si è schiantato sulle macchine bruciate e i muri imbrattati del centro città, di fatto smettendo da quel momento di esistere. Proprio in quell’occasione, tuttavia, con una manifestazione alternativa imperniata sull’allestimento di una cucina popolare con prodotti che arrivavano direttamente dal campo in una piazza milanese animata per ore da chiacchiere e balli, si è messo definitivamente in luce un movimento di tutt’altro genere: Genuino Clandestino, la rete nazionale di contadini in lotta, a sua volta in relazione coi consimili di altre parti del mondo, come i Sem Terra del Brasile. Senza strutturarsi gerarchicamente e senza disdegnare l’illegalità (per esempio con scambi di semi antichi, vietati dalle normative vigenti), Genuino Clandestino proclama a gran voce le sue parole chiave: comunità, lotta e autodeterminazione alimentare. Sembra il contravveleno perfetto alla dominazione e all’alienazione generate dal capitalismo finanziario globalizzato; una ricetta che, credo, sia Camus sia Holloway troverebbero di proprio gusto; un seme di rivoluzione che, opportunamente coltivato, potrebbe attecchire in altri terreni e diffondersi. Non siamo né nell’ottobre del 1917 né nel marzo del 1933; ma le lezioni di quegli anni devono essere sempre presenti alla nostra coscienza. Tra il «solitario» e il «solidale» di Camus ciascuno di noi oggi può scegliere in quale punto collocarsi: e questa è l’essenza della libertà.

(17 febbraio 2017)

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